Sfondare…
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La foto mi ritrane durante la conferenza nella sede dell’UNITRE (università delle tre età) di oggi. Il tema era: la ricetta della felicità. Io ho detto: desidera, desidera, impara l’arte di desiderare e di mantenere il desiderio vivo.
Sfondare…
E non c’era verso. Si facevano le stesse domande – com’è giusto. E si ribadivano gli stessi principi – com’è normale. Cambiare, modificare gli schemi mentali, centrarsi con le energie dell’universo e cose del genere. Ormai c’era un linguaggio standard che inquadrava i percorsi di cambiamento, di conversione. Li rendeva persino opachi.
E si capiva sempre di più che a parlare, forse, si preparava il terreno, ma che non bastava parlare. Le cose migliori sarebbero venute dai creativi capaci di efficacia, di produzione di cose, di idee, di proposte, di prospettive.
Noi sentivamo il desiderio – quasi il bisogno – di ambienti favorevoli alla creatività. Qualcosa che mettesse insieme talenti, finanziamenti, iniziative di marketing, organizzazioni flessibili ma sinergiche.
Per dare alla vita, alla società, una forma nuova e promettente, soprattutto bella, alla sensibilità, ai costumi, alla vita dei protagonisti del cambiamento. Ci guardavamo intorno con sgomento perché non vedevamo molto muoversi in questa direzione.
Ma non sempre le forze che muovono sono visibili. E spesso sono impastoiate tra le esigenze del mercato e quelle della leadership sociale.
Per avere leadership bisogna essere capaci di ideare, di anticipare, di creare. Il mercato, per lo più, è passivo rispetto alle consuetudini.
Avevamo bisogno di mecenati, con l’anima rinascimentale.
Sentivamo che in un paese come il nostro, veramente pregno di talenti, c’era bisogno di qualche grande forza capace di capitali, che mettesse in moto aggregazioni, dove scienza, tecnica, tecnologia, arte potessero fecondarsi vicendevolmente.
L’arte era – come sempre – il terreno mobile della creatività. Ma gli artisti affermati erano ormai fagocitati dalla logica conservativa del mercato dell’arte. E i giovani talenti erano persone senza quattrini, alla ricerca di uno spazio di sopravvivenza che segnava confini precisi al loro potenziale innovativo.
Bisognava riunirsi, creare sinergie, trovare il modo di reperire capitali, creare laboratori, vere e proprie factory, inondare la comunicazione di una sensibilità nuova. Poter ricercare con un po’ di respiro.
Tentare soluzioni per la mera sopravvivenza castrava. Eppure, era doveroso e necessario. Quale giovane talento artistico avrebbe lasciato uno stipendio onorevole per dare libera uscita alla sua vocazione? E quale giovane artista, marginale, avrebbe potuto spingere la sua audacia oltre certi confini, con la prospettiva di morire di fame?
Eppure c’era nell’aria un bisogno di arte, di creatività, di invenzione che saturava l’aria che respiravamo. Nessuno, da solo, avrebbe potuto sfondare il muro. I mass media erano occupati da chi già sedeva su qualche poltrona. E come rendersi visibili, quando spuntavi ai margini del castello?
Era, forse, il terreno di prova, la gavetta, di nuovi talenti. Ne sarebbero morti tanti, prima che qualcuno venisse alla ribalta, rovesciando le cose.
Ma noi credevamo che qualcosa sarebbe cambiato. E che ci sarebbe stata una chance. Lavoravamo in questa prospettiva, pur nelle ristrettezze del nostro portafoglio.
Non volevamo addormentarci, restare anestetizzati da queste stesse contraddizioni. E ci svegliavamo ogni mattina, dicendo a noi stessi: si ricomincia.
Io mettevo in rete tutto ciò che riuscivo a spremere da un cuore che continuava a pulsare. E speravo che da un momento all’altro, una nuova iniziativa aprisse gli orizzonti.
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