L’arte di pensare

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L’arte di pensare.


Erika veniva da Berlino. Il gruppo berlinese era particolarmente attivo nella ricerca. A dispetto della sua giovane età, Erika era considerata tra le più efficaci comunicatrici della Berliner Denkart, dell’arte di pensare del gruppo, che noi, non senza  un pizzico d’ironia, chiamavamo Berlinerblau, o azzurro di Prussia.
Ci stava raccontando la sua storia, per offrirci degli spunti di riflessione che venissero dal vissuto.


– Finite le superiori, mi sono iscritta alla Facoltà di Filosofia. Ho studiato con passione perché muovere il cervello mi piaceva. Mi faceva sentire viva e a contatto con tutte quelle domande che mi abitavano così intimamente. Ero sorpresa delle grandi idee che i maestri del pensiero avevano elaborato. E mi impegnavo ad entrarci dentro. Ogni volta che studiavo un pensatore nuovo, riuscivo a trovarci delle verità nuove che rappresentavano una conquista per me. E anche se i pensatori sembravano contraddirsi sonoramente tra loro, non me ne derivava alcuno scandalo e nessuna inibizione.


Il pensiero è libero di scorrere dove vuole e dovunque scorra trova alimento per la sua fame.


Non mi sfuggiva affatto che i filosofi polemizzavano tra loro, e talvolta anche duramente. Ma non ci facevo gran caso. La polemica non era la parte del pensiero che mi interessava. Non erano le argomentazioni acute per seppellire o liquidare le idee di un altro pensatore che costituivano il mio nutrimento. Non mi nutrivo di condanne. La polemica distrugge e capivo che sarei stata una cattiva pensatrice se la forza del mio pensiero fosse consistita unicamente nella forza della distruzione.


M’interessava cercare e trovare in ogni pensatore quell’idea positiva che lui portava sulla grande tavola della filosofia. E non sentivo neanche l’urgenza di mettere tutte quelle idee in un sistema logicamente coerente. Mi bastava raccoglierle e tenerle a disposizione. Riconoscere in ognuna di esse una scintilla di verità e riporla nel mio baule.


Pensavo che costruire un sistema di pensiero fosse un po’ come costruirsi una casa in cui abitare. Se ti costruisci una palafitta, il tuo mondo diventerà la palafitta. Ma la palafitta è un mondo così povero che non ci resti sempre dentro e senti il desiderio di uscire e di esplorare ancora. Se ti costruisci un grande castello il rischio che tu ci rimanga sempre dentro e ti dimentichi del mondo, là fuori, è più grande. Per grande e ricco che sia un castello non è mai grande e ricco come il mondo reale.


Decisi che semmai mi fossi costruita un castello, sarei uscita spesso, lasciandomi il castello alle spalle. In fondo, mi sentivo più libera a girovagare sul territorio aperto e a ricominciare ogni volta daccapo.


Avevo il senso della relatività dei miei pensieri, anche se ero eccitata dalla loro bellezza. Pensare era dunque, per me, una dimensione del mio viaggiare per la vita. Non vi avrei mai rinunciato perché la vita pensata è più ricca, più intensa, più consapevole. Ma non avrei mai sostituito le costruzione del mio pensiero alla vita stessa. La parte più elevata del mio pensare pensava sempre che la vita era là, oltre il pensiero. Che il pensiero era una lente per guardare la vita e non uno specchio in cui riflettere solo se stesso.


Ma cos’era quel là fuori (del pensiero) che il mio pensare ricercava – a volte con ansia, altre volte con gioiosa leggerezza?
Mi resi conto che quell’altrove era sempre oltre quello che riuscivo a vedere, una zona oscura e misteriosa oltre la luce che i miei pensieri riuscivano a gettare sulla vita. E ciò che mi spingeva a ricercare era la segreta molla del mio desiderio di senso.
Io volevo che la mia vita avesse un senso e cercavo là fuori – altrove – qualcosa che colmasse questo bisogno di senso.
Era come se sapessi a priori che una vita felice è una vita dotata di senso, di un grande senso. E postulavo che questo senso esistesse e che cercarlo era già introdurlo in qualche modo nella mia vita.


Lo sapevo bene che postulare l’esistenza del senso era qualcosa che dipendeva da una sorta di atto di fede, alla cui base c’era per me il solo ma potente ragionamento che l’ipotesi contraria – che non ci fosse alcun senso nella vita – era terribile. In sostanza mi rendevo conto che davo retta al mio desiderio. Invece di desiderare quel che pensavo, cercavo di pensare quel che desideravo.


Io desideravo che ci fosse un senso e per questo ci scommettevo. E vivevo come se ci fosse. E chiedevo al mio pensiero di sostenere – con la massima sincerità possibile – questa scommessa.


E volevo qualcosa di particolare rispetto al senso stesso. Non mi accontentavo che il “senso” fosse semplicemente – come nel codice stradale – la direzione di marcia. Volevo che il senso si facesse sentire. Molto intimamente. Il senso doveva essere come la presenza sentita di un amore appassionato. E’ solo in questi termini che si può parlare di felicità.


Allora, aiutandomi con l’immaginazione, incominciai a pensare a una Presenza pulsante e viva all’interno stesso della vita. A qualcosa che potevo sentire in qualsiasi momento. E compresi che era il mio lavoro d’immaginazione e di sentimento che la rendeva presente, che le consentiva di entrare nella mia esperienza vissuta.
Mi resi conto gradualmente che questa Presenza era esattamente il Dio di cui parlavano i mistici, misterioso ma vicinissimo. Fonte di una vita ispirata.


I miei colleghi di studio mi facevano notare che questa non era più filosofia, ma un gioco dell’immaginario. E con questa osservazione volevano minimizzare la portata della mia esperienza vissuta e delle mie asserzioni. Come dire che se non potevo dimostrare razionalmente l’esistenza di questo Dio misterioso, affidare la mia vita alla sua Presenza pulsante era un atto irrazionale.


Cominciai così a riflettere sul valore di questa distinzione tra ragione e immaginazione, che sembrava così scontata. E arrivai alla conclusione che questa contrapposizione costituiva una sorta di prigione per il pensiero. Dentro di me non c’erano un filosofo e un artista, alloggiati in stanze separate. Ero io, tutta me stessa, nella mia unicità, che pensavo sotto la spinta del desiderio. E non c’era alcun fossato tra le mie riflessioni più logiche e fondate e le mie immaginazioni postulatorie. Era sempre il mio pensiero. E il mio pensiero voleva essere libero di essere fedele a se stesso fino in fondo, senza fermarsi a frontiere artificiali.


Incominciai a vivere la fede come un atto anche più razionale della ragione. Come la ragione che esplora se stessa oltre i limiti che si è posta in modo artificiale.


E, di questo passo, l’immaginazione acquistò uno spazio serenamente più largo e un’importanza più grande nella mia vita. Era l’immaginazione che inventava pensieri e immagini e metafore da proporre allo sguardo dell’intelligenza. Libera dai vincoli della logica a priori, l’immaginazione si mostrò uno strumento potente per dare al desiderio territori da esplorare e alla ragione concetti con cui sorprendersi.
E’ in questo modo che sono approdata a un grande apprezzamento del pensiero creativo. Perché è immaginando che il pensiero propone nuove idee che mantengono gli orizzonti aperti e consentono il viaggio di esplorazione.
Lungi dal rimpiangere i castelli delle grandi costruzioni razionali di un tempo, percorrevo il territorio della vita in maniera più libera, in groppa a un pensiero creativo che si nutriva di speranza e nutriva la speranza stessa.


A questo punto, Erika s’interruppe. La pausa che seguì rendeva in qualche modo sensibile il formicolio delle nostre menti. Sorridendo, ci suggerì di riflettere sulle cose che ci aveva detto. Ci suggerì di ascoltare quelle parole e poi di registrare semplicemente i pensieri che ci venivano in mente. Qualsiasi pensiero.
Il giorno successivo ci saremmo nuovamente incontrati, per continuare.


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Il quadro: La ragazza dei sortilegi (acrilico su tela cm 90 x 130)

Eugenio Guarini
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