Le donne a maggio

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Le donne a maggio


Eravamo in quattro o cinque attorno al tavolo. Sotto la tettoia del déhors del Bar Fiore – sì quello davanti la Stazione di Rivarolo. Marco andava e veniva per servire gli avventori. Ci aveva portato vino bianco freddo con uno spicchio di limone. Faceva caldo umido dappertutto. E ti si appiccicava all’anima e al colletto.


Brufolo – come lo chiamavano – era tutto eccitato che sembrava un padre pellegrino con il dito alzato e gli occhi spiritati. Ci rimproverava – eravamo tutti pittori, eccetto lui che bazzica nella politica – ci rimproverava che non ce ne frega niente di quello che capita nel paese, che viviamo nel nostro piccolo mondo fatto di tanto narcisismo, chiacchiere sulle belle donne, e bolle d’aria incomprensibili a proposito di macchie di colore gettate a caso sulla tela…


Ma non appena ci ebbe vomitato addosso tutto quello che aveva nello stomaco si calmò subito, accovacciandosi quasi attorno al suo bicchiere. Lui è fatto così. Spara con un bazooka ma quando ha finito le cartucce si estranea dal contesto e ripassa nella mente le notizie del giorno – lui legge regolarmente tre quotidiani e non si perde un sevizio culturale di seconda serata. Sui complessi musicali è una vera enciclopedia…


Danilo, senza scomporsi più di tanto, viene raccontando delle beccacce che dipinge. Beccacce e cani – pointer, per la precisione. Lui è un cacciatore e le beccacce le conosce bene. Da quando è morta sua moglie ha riempito la casa di beccacce in ogni posizione, che, varcata la soglia, sembra di entrare in una voliera. Danilo è magro, affilato, ma di grande energia. Un ragazzo di cuore. Si appassiona delle cose che fa e se ha dell’entusiasmo dentro te lo fa sapere con calore.


Marco, ogni tanto, s’intrometteva, ribadendo – sospinto da non si sa quale logica segreta – il concetto che le donne, a maggio, diventano assolutamente incomprensibili e con lo sguardo faceva intendere che era piuttosto documentato in proposito.


Noi stavamo festeggiando Davide, che aveva preso la coraggiosa decisione di licenziarsi per dedicarsi completamente alla pittura.
Davide ha una vera vocazione alla pittura, è molto bravo, e soffriva da anni di dividere la sua anima tra un lavoro “sicuro” che però non ama e una pittura che ama ma per la quale non era ancora riuscito a scommettere fino in fondo.


– Mi sono messo in gioco ora – diceva – Non è stato un colpo di testa, piuttosto una presa di coscienza di chi sono  e di che rapporto ho con tutto ciò che mi circonda, del reale valore delle cose. Per carità, non sono certo uno  “che ha capito tutto”, ma il passo verso la direzione giusta è stato fatto.


Gli tremavano un po’ le mani, mentre parlava, a testimonianza del fatto che uno stipendio fisso è comunque uno stipendio fisso, mentre con la vendita dei quadri non puoi mai sapere… Però era convinto di aver fatto una scelta giusta.


E io lo guardavo con una commozione profonda, dentro. Assaporare l’ebbrezza di una decisione audace con cui ci si mette in gioco è come bere ad una fonte purissima di cui ci si ricorderà nei momenti difficili. Ma intanto è festa. Con la sensazione di essere centrati, allineati con l’asse della vita.


E alzammo volentieri, tutti insieme, i bicchieri per Davide, lì, sotto la tettoia del Bar Fiore, proprio davanti la Stazione, brindando alla fortuna. E sbattemmo le palpebre ripetutamente quando Jimena ci porto il secondo vassoio, lasciando fluttuare la vento la sua generosa scollatura.

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