L’impresa creativa

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L’impresa creativa


A quei tempi facevamo l’amore e scrivevamo poesie, inneggiavamo alla libertà e al gioco, suonavamo e cenavamo tutti insieme, in un mare di risate e di amicizia. E quella spensieratezza ci dava la sensazione di vedere meglio cosa fosse vivere…


Ma veniva sempre il momento in cui restavamo senza quattrini e allora, adattandoci alle circostanze, ci davamo da fare per vendere qualche quadro, ottenere un compenso dal padrone di un locale per un happening o un intrattenimento… Cose del genere.


E, spesso, l’esistenza diventava magra. Qualcuno tra i più fortunati, destinato certo al successo, divideva con gli altri un lauto incasso occasionale. Ma non c’era verso… senza guadagnare quattrini tutta la nostra bella vita andava in fumo.


Alcuni sembravano accettare il destino della cicala. Cantare tutta una stagione e poi morire d’inverno. Ma altri rifiutavano questo copione dell’artista sregolato, tormentato dalla povertà e vulnerabile alla malattia, la cui fama sarebbe stata irrimediabilmente postuma, e la fortuna per il valore delle sue opere, goduta dagli eredi e da scaltri mercanti …


Se la nostra vita irregolare e anarchica era un rifiuto della routine borghese – pronta a sacrificare l’anima per costruire il proprio capitale, nella necessità di guadagnarci da vivere noi incontravamo la condizione dell’uomo comune, della gente del popolo. E questo ci faceva trovare la dimensione della dignità.


Forse il mondo avrebbe dovuto pagarci una rendita per il fatto di vivere da artisti, di mettere al mondo la bellezza e di ricordare a tutti che c’è qualcos’altro che vale la pena. Ma il mondo, in genere, non è un mecenate. E noi non potevamo pretendere privilegi di sorta – avendo già il privilegio di non avere padroni ed essendo liberi di gestire la nostra operosità.


Il punto decisivo – non c’era da essere ciechi – era vendere. Dovevamo investire una parte della nostra creatività nell’organizzare la vendita. E dovevamo vendere da artisti, per non ricadere in tutti quei luoghi comuni da cui come artisti ci eravamo allontanati.


Nacque così l’idea dell’impresa creativa.


Doveva essere uno stile diverso d’impresa.
Qualcosa in cui il peso dell’anima – quei 21 grammi che segnano la differenza tra un corpo vivo e un cadavere – non venisse meno prima del tempo.


E c’incontravamo per parlare di questo e discutevamo, partorivamo idee, mettevamo in chiaro le cose, costruivamo per la nostra attività d’artisti una filosofia che le desse respiro e orizzonti. E scoprimmo che ci eravamo imbarcati in un’impresa sorprendente e che eravamo in sintonia con le esigenze dei tempi.


Oramai sapevamo che la nostra creatività non era solo impegnata a produrre dei bei quadri o musica straordinaria o cose del genere… Insomma, non stavamo abbellendo il mondo con le sole cose che uscivano dalle nostre mani… Noi stavamo contribuendo con le nostre idee a una nuova cultura del lavoro, cui il mondo intero sembrava aspirare.


Coniugare la nostra vena artistica particolare con la necessità di guadagnarci da vivere in maniera creativa faceva di noi degli artisti radicati nel mondo, vicini alla gente comune, spesso più sensibili e intelligenti di altri – manager ed economisti – nel dare espressione a esigenze che premevano nel cuore delle persone e che non avevano ancora un nome.


Ecco! Noi davamo un nome a problemi che ancora non ne avevano uno. E questo consentiva che venissero posti sul tavolo dei lavori.


Il quadro.


Si intitola Odore di te. Ricorda un amore appassionato dell’epoca bohémien.

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