Mi piace scrivere

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Scrivere.


In realtà mi piace scrivere.


Voglio dire, la vita dello scrittore. Mi sembra che uno scrittore, per il fatto di essere uno scrittore, abbia la libertà di dire tutto quello che pensa. Tutto quello che gli passa per la mente.


Anche se per la mente ci passano cose strane. Veramente strane. Beh, anche se è strano quello che passa per la mente, ecco, uno scrittore, per il semplice fatto che si pensa come uno scrittore, si sente libero di vivere questa sorta di eccitazione. Dire, dire stranamente quanto merita di essere detto, quelle cose strane che passano per la mente. Dirle e ascoltarle mentre le dice, come se avessero qualcosa da rivelare, sì, qualcosa in forza della quale svelano un lato, o uno strato – che so io? – del vivere, dell’essere al mondo, dell’aprire gli occhi – anche se solo a metà – su questa cosa che chiamiamo la nostra vita.


Insomma, uno scrittore si prende la libertà di assorbire e assaporare ciò che gli strani pensieri che gli saltano in testa hanno da dire.


Io credo che sia una sorta di lusso.


Infatti, quando si parla, o si scrive, si è di solito così ragionevoli, così logici, così ossequienti delle regole, che alla fine si ha l’impressione di non aver pensato o detto niente… Di aver solo sottoposto il dire e lo scrivere alla sovranità delle regole vigenti. Insomma, in questo modo, si ribadiscono solo le regole. Non si dice niente.


Lo scrittore, prendendosi la libertà di dire le stranezze che gli saltano in testa, beh, lo scrittore, con questa libertà, a modo suo, ha l’impressione di avvicinarsi a qualcosa, davvero. Sì, davvero a qualcosa.
Non regole, ma qualcosa.


A volte mi chiedo: ma questa cosa, questa libertà di scrivere le cose strane che saltano in testa, e di gustarle, ascoltarle, lasciarsi fecondare da queste stranezze…, mi domando: ma questa libertà è qualcosa che definisce uno scrittore rispetto agli altri? Insomma, vale solo per chi ritiene di avere il diritto di presentarsi come uno scrittore?
Insomma, se tu dici: io sono uno scrittore, da questo punto in poi hai aperta davanti a te questa strada da percorrere. La strada dello scrittore.


Beh, quando mi faccio questo genere di domande io ascolto una sorta di voce che dentro di me risponde. Faccio sempre così con le domande. Quando riesco a formularne una, dopo, ascolto la vocina interiore che mi dà la sua risposta.
E in questo caso, la vocina interiore dice: è tutto un gioco delle parti. Scrittore, pittore, o ingegnere… non conta. È questa mania di classificare la vita e le persone, che tutti condividiamo con la nostra cultura. O almeno, con una parte molto potente della nostra cultura. Classificare, definire e separare. I lavori, gli aspetti della vita, e tutto il resto.


Ma la vocina da dentro dice: le cose non stanno così. Il desiderio che tu provi nello scrivere in quel modo, quel desiderio di cui ti dai il permesso dicendo: io sono uno scrittore… quel desiderio e quell’esperienza sono qualcosa che riguarda l’uomo, prima e al di sotto – o al di sopra – di ogni definizione.


E, infatti, perché gli uomini non scrittori leggono quello che gli scrittori scrivono? Perché vi riconoscono una parte di sé. Perché sanno che appartiene loro, anche se per lavoro fanno tutt’altro.


Insomma, io penso che ogni forma di arte, benché si caratterizzi dal rivendicare una forma di libertà nel fare, sentire, pensare certe cose, oltre le regole del comune fare, pensare, sentire, a un livello più profondo, e più vero, sappia che si tratta non di una specializzazione che separa l’artista dal resto della gente, ma di un’esperienza che ricongiunge l’artista con ciò che tutti hanno in comune.
Che è il desiderio di vivere, e di essere almeno un po’ consapevoli della ricchezza e della complessità – piuttosto caotica – che è la vita umana.


Perché la vita sociale è così piena di regole che, a un certo punto, uno ha perso il contatto con la vita. Gli chiedi: che cosa significa vivere, per te? E lui rimane sbalordito. Ti risponde che significa alzarsi alle sette, farsi la doccia, la colazione, andare al lavoro, e così via… Capisci? E mentre descrive la sua giornata, lui descrive le regole che la regolano. Ma tu vedi nei suoi occhi che lo sa. Lo sa di aver smarrito il contatto con la vita.
Magari ne ha un contatto marginale, recondito, sotterraneo.
Un contatto che si rivela nei suoi sogni, nelle fantasticherie – dove, talvolta, si consente qualche sregolatezza…
Ma, mentre ti racconta la sua giornata e le cose che contano nella sua gestione dell’esistenza, tu puoi leggere nei suoi occhi una sorta di smarrimento. Come se, tra le righe di quel che dice, dicesse anche che non lo sa più. Non sa più cosa significa vivere. Sa le regole. Tutto qui.


Questo non è triste.
Non mi rattrista – voglio dire.
Sento persino una sorta di simpatia per la situazione che ho appena descritto. Vedo la bellezza della condizione umana, della sua ambiguità.
No, non è un pensiero triste. E dovrebbe esserlo.


E allora mi domando perché.
E la vocina interiore dice che è perché io ho scelto – o sono stato condotto a scegliere – la situazione del risveglio, della conversione.
Ed è proprio così. Io sento una grande attrazione per l’esperienza della conversione.
La conversione è quello che avviene quando, improvvisamente, ti rendi conto che quello che fai e senti e pensi… non è vita. E qualcosa, dentro, ti spinge a cambiare. E ti senti tutte le energie del caso, dentro.
Ed è per questo che il mio piacere di scrivere si viene focalizzando su questo momento così tenero, caldo, sensibile, inquietante e speranzoso, che è il risveglio. O comunque lo vuoi chiamare.

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