Integrità

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Integrità


Mentre percorro il mio cammino…
Guardo i volti delle persone. Come fossero parole. Cerco il senso di quello che vogliono dire. Come se i volti fossero la parola corporea del desiderio dell’anima. Della ricerca di una storia. Cerco quella vibrazione che mi accomuna alla loro storia. Cerco un’immagine di me stesso nei volti delle persone.


I volti delle persone come linguaggio. E spesso si tratta di un linguaggio che si dice da sé, dentro di loro. Di cui loro stessi non sono chiaramente consapevoli.
Come io stesso sento ma non sono del tutto consapevole.
E spesso nasce, da questo incontro di volti, una qualche intuizione.


Guardavo il volto di Elena, l’altra sera.
Avevano servito merluzzo fresco con olive e patate. La luce delle lampade, il respiro leggero della notte sul lago… Guardavo il suo volto, mentre parlava, con una certa eccitazione. Non parlava neanche di lavoro – benché sia impegnata in un’attività piuttosto gravosa. Anche se è il suo lavoro. Come si dice? La sua missione.
Lei la vive così. Parlava di qualcosa che era dentro il lavoro e fuori di esso.


C’erano zanzare? Sì, ricordo le zanzare. Il lago. Il caldo. È estate, ormai..


E mi sono rimasti impressi quegli occhi.
A volte non ricordi le parole, i concetti. Ma ricordi gli occhi. E gli occhi hanno un loro discorso. Che si dipana dietro le parole. E che poi, magari a casa, prima di andare a dormire, tu traduci nelle tue parole. Come faccio io adesso.


Cosa diceva Elena quella sera? Ricordo poco. Perché si dicono tante parole in fretta, per riempire gli spazi di una serata tra amici. E non sono neanche nostre parole. Solo gesti di cortesia. Solo gesti di ospitalità. E quando le parole sono gesti, non importa ricordare le parole.


Veramente, dentro di me pensavo altro. Pensavo: com’è bello essere parte della vita. Com’è bello aver avuto questo dono di vedere e sentire qualcosa della vita! Dicevo più o meno queste cose, dentro di me. Perché era una di quelle sere in cui tutto sembra miracolo.
E c’erano quegli occhi. Ed Elena che parlava – non credo parlasse di lavoro. Ma non ricordo le parole.


E quegli occhi entravano nel mio discorso. Sembrava si staccassero da quello che Elena diceva. Che si staccassero dalla stessa Elena. Ed entravano nel mio discorso. Erano due occhi interlocutori. Parlavano con me, indipendentemente da Elena. Che strano!


Mi sembrava perfino irrispettoso. Insomma, Elena… eppure, tant’è!


Non so come, non so spiegare, ma quegli occhi mi richiamavano. Era come se dicessero: sincero, spregiudicatamente sincero. Io lo sono, io lo cerco. Questo è giusto. Bisogna che tu lo sia. Bisogna che la sincerità sia nel centro di quello che sei, che senti e che fai. Sincero!


Mi dicevano che il centro è da quella parte. Sincerità radicale. Quello che senti davvero, quello che vedi davvero. Quello che pensi davvero.
E: affidati. Credici. Credici completamente. Qualcosa del genere.
Si sa, queste sono parole. Ma come si fa a dire gli umori, i moti del cuore, i richiami dell’anima?


E vedevo dentro i miei ricordi come una traccia di storia. La traccia di una ricerca di sincerità radicale. Una sorta di integrità.


La storia degli Ontonauti aveva preso le mosse dal desiderio di vivere liberamente la straordinaria avventura della vita. Sentivamo che bisognava non avere padroni. E poiché il lavoro impegna gran parte della nostra esistenza, cercavamo il modo di guadagnarci da vivere senza vendere l’anima. Il che voleva dire campare con quello che amavi fare.
Era essenziale scoprire i nostri talenti e considerarli una sorta di vocazione. Impegnarci nel coltivare questi talenti come il dono più prezioso e la risorsa più importante.
Sapevamo che per fare questo dovevamo essere in contatto con noi stessi. Con il nostro sentire reale. E una cosa così semplice a dirsi risultava nella realtà a volte piuttosto difficile.
Sembrava che negli anni della giovinezza, nel passato della nostra storia, fossimo stati come invasi da altro. Opinioni, regole, perfino ideali che non erano … noi. Ci trovavamo a vivere una sensibilità già colonizzata da altri e da altro da noi.
La sincerità radicale e spregiudicata era una conquista essenziale. E ognuno doveva in certo qual modo trovare la sua strada. Imparare dall’esperienza diretta i segnali che consentivano di distinguere quello che era veramente nostro da quello che semplicemente ci occupava.


Ecco cosa mi dicevano gli occhi di Elena e il suo volto. Quella sera.
E mi facevano riandare ai volti e agli occhi di tutte le mie donne dipinte. Ora vedevo questo filo rosso che univa tra loro questi mille volti. Nel loro sguardo c’era la fierezza di chi è in contatto con se stesso e sa che quello che sente e che pensa è esattamente quello che è.


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Il quadro: Una sincerità spregiudicata (acrilico su tela cm 100 x 100)

Eugenio Guarini
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