Volere “tutta” la vita

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Volere “tutta” la vita.


Cosa volevamo?
Vivere. Una vita piena, noi dicevamo: “tutta” la vita.


Noi immaginavamo la vita come un continente tutto da scoprire. Avevamo appena assaporato le sue sponde, i confini, pochi territori. La vita era molto di più. Ed era quell’altrove che ci chiamava.


Come lo sapevamo?
Non lo sapevamo. Lo immaginavamo. E lo immaginavamo perché lo desideravamo. Il desiderio era la nostra guida.


I nostri filosofi, come Slatter, ci spiegavano che il sistema della scienza, apparentemente, riguardava quello che c’era. In un certo senso – per degli esploratori dell’essere come gli ontonauti – riguardava quel che c’era stato, quel che avevamo già esplorato.


Slatter era un convinto sostenitore della dieta mediterranea, piuttosto che del light food – oltre che filosofo. Lui sosteneva che l’universo è una catena nutrizionale e che ogni tentativo di interrompere la catena non andava impunito.


Slatter sosteneva che come è la fame – o l’appetito – a muoverci verso la coltura e la culinaria e il cibo, così sono i desideri che ci spingono ad esplorare la vita. Parlava della vita come di qualcosa di “succulento”. Insomma, per dirla con la scuola: descrivere ciò che c’è e spiegare ciò che accade non esaurisce che in minima parte il nostro bisogno di sapere. C’è anche la cura del desiderio. Il desiderio sa – come in negativo – ciò che deve avvenire per colmare la fame di vita.


Per questo gli ontonauti coltivavano l’arte del desiderio e ne traevano una sorta di sapere ipotetico, postulatorio, che ci guidava nell’esplorazione. Apprendere e gustare era una cosa sola. E fu proprio movendoci in questa direzione che scoprimmo altri significati dell’impresa, dell’avventura, della navigazione.


A quei tempi stava emergendo una classe di persone creative – come diceva Richard Florida – e queste persone erano caratterizzate da una voglia di fare esperienza attiva della vita, in tutti i suoi risvolti. Lasciavano dietro le spalle i consumi passivi delle cose – anche belle – e preferivano fare, cimentarsi in proprio. Non soffrivano più di tanto se lo stato assistenziale crollava alle loro spalle. Non cercavano più il conforto del posto fisso a tempo indeterminato. E anche il crollo progressivo del sistema pensionistico pubblico non li gettava nello sconforto.


Diventavano intraprendenti. Si davano da fare.
Il motivo più forte era che lo desideravano.
Il tempo era prezioso. Ogni momento era una possibilità.
E tutto quello che succedeva era più importante di ciò che non c’era. Ma guardavano ogni cosa che succedeva e che facevano succedere con gli occhi di chi semina e di chi viaggia per mare. Era quel terreno che avrebbe nutrito la pianta, era quell’onda e quel vento che ci avrebbe portato. Noi ci lavoravamo sopra.


A differenza dei realisti puri, noi vedevamo nei dati di fatto qualcosa che avrebbe partorito. A differenza degli idealisti puri, noi vedevamo in ciò che c’è, in ciò che avviene, la forza e la corrente che ci avrebbe portato alla realizzazione dei nostri sogni.


Cosa sognavamo?
Una vita piena. Noi dicevamo: “tutta” la vita.
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La foto: Volere tutta la vita.

Eugenio Guarini
http://www.eugenioguarini.it

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