Categoria : Eugenio Guarini
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la foto: il fuoco acceso
Fare l’amore.
Mi chiamo Jonathan. Lei è morta. Un incidente d’auto. Ora non è più qui, anche se la porto ancora nel cuore. E, in un certo senso, è più vicina che mai… Qualcosa di incomprensibile, perfino assurdo. Ma le cose stanno in questo modo.
Sì, ci divertivamo a mettere in parole le cose che riuscivamo ad inventare. E a ripetere la storia – la nostra storia – ogni volta cambiata nel racconto. Cambiata da ciò che di nuovo era successo ed avevamo inventato.
Quando ci siamo messi insieme è stato per un’attrazione irresistibile. Non facevamo che far l’amore. E tutto il resto veniva come messo in secondo piano. Sullo sfondo. Lei mi piaceva moltissimo. Solo vederla mi eccitava a tal punto che perdevo ogni ritegno e ho la presunzione di credere che lo stesso avvenisse anche a lei. Era un dono del Cielo che questo avvenisse e che fosse proprio così. Non importava più nulla quello che avevamo imparato sul fare l’amore. Ora facevamo l’amore senza chiederci assolutamente nulla di come si deve fare l’amore. Facevamo l’amore, tutto qui. Lo facevamo.
Chiamammo quel periodo il momento in cui avevamo imparato che l’amore va fatto. Bisogna fare, l’amore. Farlo, come, in ogni cosa che si ama, bisogna fare.
Noi ragionammo molto su una cosa che veniva da sé, prima di ogni riflessione. Cercammo di capire cosa voleva dire “fare”. Lo pensammo a proposito del fare l’amore. Perché l’amore era la cosa che volevamo di più.
Lei diceva: vedi? Tutto quello che abbiamo conosciuto prima, letto, visto nei film, di cui abbiamo parlato, tutto quello che sapevamo dell’amore non è sufficiente, ed è perfino superfluo, quando facciamo l’amore. Nel fare l’amore noi ci avventuriamo per un itinerario che si stacca dalle mappe. E noi lo facciamo.
Noi facevamo l’amore quando lo facevamo. Voglio dire che non mettevamo in pratica qualcosa che già sapevamo. Noi lo facevamo lì quello che era l’amore.
Noi eravamo colpiti da questa intuizione che avemmo insieme. L’amore si fa. Non si esegue qualcosa che già prima si sapeva. No, l’amore si fa lì, proprio lì.
Eravamo storditi – piacevolmente – da questa scoperta. Che ci liberava da tutti i pregiudizi, da tutta la cultura. Noi lo facevamo l’amore. Perché l’amore non è un semplice sentimento, ma una cosa da fare. Una cosa che si fa.
Più tardi scoprimmo che l’amore non si faceva solo a letto, o sul tavolo, o sul pavimento, o nella campagna.
Più tardi scoprimmo che l’amore che facevamo apriva i suoi percorsi. E un po’ per volta scoprimmo che fare l’amore cambiava continuamente. Fare l’amore diventava sempre di più fare le cose che l’amore chiedeva.
Noi ridevamo quando ne parlavamo. Ridevamo sul fatto che l’espressione che usavamo – fare l’amore – aveva cambiato significato, pur restando la stessa. Fare l’amore voleva dire per noi – lo constatavamo, nota bene: non lo progettavamo – fare l’amore voleva dire fare tutto quello che nasceva dall’amore stesso. E noi stavamo facendo proprio quello. E sapevamo che fare queste cose era fare l’amore. E ridevamo. Ridevamo quando ne parlavamo.
Il tempo della giornata non bastava mai per fare l’amore. Fare l’amore era come un orto dove sempre nuove piante crescevano ed erano da coltivare. E facevamo l’amore qualsiasi cosa facessimo: era tutto fare l’amore. Si potevano fare tante cose – lo sapevamo. Si potevano fare mille cose. Tutte diverse. Ogni cosa era da fare. Ma noi facevamo l’amore, qualsiasi cosa facessimo. E la percezione del mondo, ce la ritrovammo cambiata tra le mani, senza neanche che ce ne accorgessimo. E ridevamo quando ritornavamo con la memoria a tutte quelle discussioni di prima. Tutti quegli interrogativi che sembravano dividere e contrapporre. E ora, tutta questa divisione, tutta questa separazione delle cose, tutta quella necessità di trovare mediazioni ragionevoli tra istanze distinte, tutto questo si era dissolto senza nessun progetto.
Noi ridevamo perché ci sembrava di aver ricevuto un’intuizione decisiva, proprio nel momento in cui avevamo scoperto che l’amore si fa.
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