Dove sto andando?

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Dove sto andando?


Le domande di Vera ci mettevano in moto il cervello, ma ci iniettavano anche una sorta di soggezione. Non per lei, per l’argomento.


O forse era proprio per lei.


Il modo in cui ci chiedeva qualcosa che l’aiutasse a capire la sua vocazione, a trovarla, a deciderla, a coltivarla, aveva un’intensità e un’integrità che non ci lasciavano indifferenti. Si poteva intuire in quel volto proteso, in quello sguardo desideroso e sofferente, nei gesti delle mani mentre parlava,… si poteva intuire una passione e una volontà fuori dal comune… comunque, qualcosa che c’impediva di fare i professori, di recitare ricette da manuale. E – sia pure con trepidazione – gliene eravamo grati.


Molti di noi – non io – lavoravano nel campo della formazione.


Si sa come vanno queste cose. È normale. Ci si mette a fare gli psicologi quando si avverte un bisogno di conoscersi e di chiarire alcune cose personali. I più superficiali immaginano che dopo che hanno studiato un po’ di teorie e assorbito qualche manuale, hanno in mano la verità sufficiente a guidare gli altri. Ma questi ragazzi avevano preso le cose sul serio. Sapevano del loro personale bisogno e cercavano di essere utili mentre cercavano per sé. Sapevano che era questo il modo corretto. Senza presunzione, ma anche senza abdicazione.


Si erano messi nella formazione immaginando, all’inizio, di poter insegnare ai manager a vincere il caos e la turbolenza. Di portare un’impresa al successo nei tempi della creatività e dell’audacia. Nei tempi della mancanza di certezze, modelli sicuri, e prevedibilità. Insomma, in questo nostro tempo.


Poi, strada facendo, avevano capito che loro stessi non sapevano. Ma avevano continuato la ricerca.


Si erano travati con persone di ogni tipo. Ma quelli che più li toccavano nel midollo spinale erano questi giovani che, sinceramente, dicevano: Vorrei, ma non so qual è la mia vocazione. Cerco dentro di me, ma non riesco a vedere l’esistenza di un sogno. Vorrei proprio svegliarmi domattina e sapere che ho questo compito nella vita. Ma non mi è ancora successo. E non so cosa fare.


All’inizio, questi ragazzi li irritavano. Avrebbero voluto fustigarli. Rimproverarli. Bacchettarli. Che si diano una mossa! E trovavano mille lati difettosi e contraddittori del loro comportamento.
Poi, tutti, erano arrivati alla conclusione che questi ragazzi rappresentavano perfettamente non solo la situazione in generale o in astratto, ma anche loro stessi. Lo sottolineo, perché è importante. Voglio proprio dire questo: che la loro apparente sicumera era un bluff. Scoprivano di aver finto certezze che non avevano. Erano dogmatici esattamente come quei dogmatici contro cui se la prendevano, in aula, tutti i santi giorni.


Vera li inquietava. In lei vedevano le loro incertezze, anche se mascherate dalla toga del formatore. Vera sapeva essere incerta in maniera così sincera che non era possibile dirle: stai sbagliando a fare questo e a non fare quell’altro. La sincerità dell’ignoranza di Vera era troppo genuina per poterla raggirare. Quell’ignoranza faceva crollare la maschera.


I miei amici formatori – che erano schietti e sinceri – riconoscevano di trovarsi davanti al buio più buio. Proprio quel buio che chi ha studiato non vuol vedere.


E allora, invece di fare i formatori, invece di fare i professori, si misero con lei a studiare, riflettere, a raccogliere quello che tra tutti avevano potuto anche soltanto intuire. La formazione aveva smesso di essere formazione ed era diventata una sincera ricerca spassionata, in comune.


Ecco quello che misero in comune.


Le persone felici non sono necessariamente ricche, ma affermano che stanno facendo quello che amano fare e dicono che stanno realizzando quello che hanno nell’anima.


Le persone che riescono a dire qualcosa di chiaro sulla loro vocazione lo fanno a posteriori. Guardando la loro vita passata riconoscono un filo rosso che ha concatenato gli eventi della loro storia e che mostra una direzione. Ma riconoscono, che al momento, allora, non capivano gran ché. Uno dice che la sua vocazione era l’insegnamento, ma riconosce che, allora, si era messo nella scuola fondamentalmente per sfuggire alla fabbrica e all’azienda. Abramo – raccontava Baruch – disse poi di aver seguito il comando di Dio di uscire dalla sua terra e di andare a dar vita a un popolo intero. Ma, allora, era solo uno che si era messo nei guai con le autorità locali e che rischiava la pelle. E fu questo che lo indusse a darsela a gambe.


Le persone che affermano di vivere gioiosamente secondo la propria vocazione riconoscono che hanno acquisito questa consapevolezza col tempo e sperimentando nella continuità la gioia di fare quello che facevano. È questa soddisfazione intima, che loro solo sapevano riconoscere, che li confermava nell’avventura.
E confessano che, in un certo senso, hanno imparato a valorizzare con la propria fiduciosa interpretazione il senso di quello che facevano. Come se se lo fossero inventato in proprio.


Queste persone riconoscono che il momento iniziale della loro storia resta un mistero. Come se fosse affidato ad eventi casuali, non previsti né programmati, e nemmeno immaginati perfettamente. Una sorta di grazia. Per cui, suggeriscono di pregare e fare tentativi, uscendo nel territorio ignoto.


Tutti dicono che, avuta una certa intuizione del desiderio profondo che li abitava, bisognava saltare, nella speranza che una rete si aprisse sotto di loro. A volte, in quelle particolari circostanze, bisognava mettere la carrozzina davanti al bambino – come recita una bella storia di mistica ebraica.


E quella sera non si riuscì ad andare oltre. Ma, ognuno a suo modo, si mise a pregare. Per Vera, ma anche per ognuno di noi.


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Il quadro: Dove sto andando? (acrilico su tela cm 100 x 100)

Eugenio Guarini
http://www.eugenioguarini.it

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