L’araba fenice

Il quadro è fresco. Si chiama Elisa


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L’araba fenice


È venuta un’amica credente a pranzo e a parlare. E siamo scivolati sugli stessi giri di vite. Lei a un certo punto incomincia a dire grazie a Dio e la mia forza è in Cristo. E io a perdermi negli stessi giri di parole di sempre, come se fossi un contro teologo illuminista. Come se il clou della faccenda fosse stabilire qual è il miglior modo di onorare l’Altissimo con le chiacchiere e di ottenere, grazie a queste, la sua benedizione.


Sento il bisogno di uno sfogo. Che Gesù sia risorto, questa è una faccenda che non me la bevo tanto facilmente. Vorrei che me la dimostrassero in maniera convincente per inchiodarmi davanti all’inconfutabile e farmi cadere in ginocchio.


Non posso nemmeno facilmente accettare che lui stesso abbia preteso di essere Dio – ma per questo, comunque, non l’avrei condannato alla croce. Le cose che ha detto sull’amore, sulla semplicità e la fiducia sono uniche. Questo bastava a farne un grande uomo, una grande anima. Ma era proprio il caso di farne un Dio?


Anch’io sono, come tanti, un po’ disperato per come le cose andranno a finire quando arriverà sorella morte. E poiché sono consapevole di avere combinato parecchie cazzate, anche nei confronti dei miei prossimi più prossimi, come i miei figli per esempio, non so dove andare a sbattere la testa per sentirmi perdonato.


Avrei sperato che i risultati della mia vita audace giustificassero le scelte un po’ pazze che ho fatto e anche i miei errori e le mie nefandezze. Ma a settant’anni mi sento piuttosto frustrato in questa aspettativa.


Non voglio, per questo, perdere il buon umore. E certamente non lo perderò. Perché ho diverse valvole di sfogo. Una la sto usando. È la scrittura. Il racconto. La chiacchiera, quello che vuoi. Ma almeno le cose escono da dentro, mi si presentano davanti, le guardo e ho compassione per me. E forse in questo sentimento, prendo le giuste distanze e trovo un luogo dove il diritto di esistere così come sono non viene contestato da alcuno.


E’ probabile che se avessi un grosso colpo di culo sul piano materiale – una grossa vincita alla Lotteria, una vendita straordinaria dei quadri – insomma quanto bastasse per non dover più rincorrere le bollette – vedrei le cose da un’angolatura molto diversa. Potrei raccontare appunto la mia vita e i miei errori, o i miei erramenti, come passi progressivi verso il trionfo. Questo non è.


E allora non mi resta che tirar fuori lo spirito. Quello a cui si appellano tutti coloro che sopravvivono alle frustrazioni e che riescono a ridere di se stessi.


Ma se c’è una cosa che mi accappona la pelle è dire: io ho la mia forza in Cristo, e tutta la mia fede è riposta in Gesù, che ha vinto la morte. Mi fa venire un brivido lungo la schiena. Perché saprei di fingere fin nel buco del culo, se facessi una cosa del genere. E lo voglio dire forte – nel caso che Gesù fosse una realtà e mi sentisse. Perché, diamine, dovrebbe, io credo, darsi una mossa e farsi avanti in maniera più convincente.


Il punto è che io so benissimo di essere piuttosto deficitario da diversi lati. Che la scelta di fare l’artista e di mettermi a rischio non è il segno chiaro di una vocazione divina, seguendo la quale mi accaparro la protezione sicura e le benedizioni dell’Altissimo.


Potrei anche sostenere con una certa dose di credibilità che mi sono messo per la via dell’arte perché incapace di reggere la disciplina del lavoro dipendente nei termini dell’azienda o dell’ufficio – insomma per pigrizia.


E che ho dato prova di una notevole dose di mancanza di prudenza e responsabilità gettandomi in una strada irta di  gineprai com’è il mercato dell’arte di cui non conosco le regole e in cui posso al massimo aspirare a fare la parte dell’accattone.


E infatti è quel che succede. Espongo nei locali dove la gente va a mangiare e a bere, in attesa di ricevere le briciole che cadono dalla loro mensa, oppure esibisco le mie opere nelle piazze durante le feste di quartiere, quasi tendendo la mano.


Certo, ho studiato, ho letto tanti libri, ho imparato a scrivere, una volta sapevo la storia e seguivo la cultura, disquisivo di politica e di massimi sistemi. Ma oggi vedo che tutto questo è poca cosa e che non è sufficiente a dare alle cose che comandano la vita un volto visibile e dei nomi convincenti.


Eppure, mentre dico questo, sento crescere dentro di me un senso di dignità grande. È come se la vista dei i miei limiti ed errori  sottolineasse il valore della tenacia che ho espresso nell’andare avanti nel viaggio di esplorazione. Capisco che, visto da qui, tutto questo sembra perfino eroico, paradossalmente. E mi accorgo che, nel contempo, si è ricostruita dentro di me l’energia e la voglia di ricominciare daccapo, e andare avanti, quali che siano le difficoltà, le oscurità, i limiti, e le paure.


E sono stupito di come l’araba fenice risorga dalle sue ceneri!

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