Perché lavoro così tanto?

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Perché lavoro così tanto?


Sì, le brioche al semolino. E quella cioccolata.


La pasticceria è alle porte di Vicenza. Stefano ci va tutte le mattine a prendere le paste per sua moglie, che è incinta. Aspetta una bambina. Lui la chiama Matrioska, perché è una donna con dentro un’altra donna. E le prende le paste, ogni mattina.


Avevo questo in testa quando parlavo con Carmen e glielo stavo raccontando quando, all’improvviso, mi viene questa domanda: Ma perché lavoro così tanto?


Lo sguardo di Carmen si mette a fuoco. La ragazza si accorge di quando sta capitando qualcosa. È una sorta di cartina di tornasole. Mi punta in questo modo, girando la testa da dietro la spalla. E sembra dire: Chieditelo!


Già, perché lavoro così tanto?


All’inizio mi sembrava chiaro. Ma me lo sono dimenticato. All’inizio – ora mi torna in mente – mi dicevo: lavorerò e farò fortuna e così smetterò di lavorare e mi godrò la vita. Il lavoro serve per non aver più bisogno di lavorare. O no?
Sarebbe come dire: faccio fortuna e poi ciao a tutti!
Per modo di dire.


Ma poi, la macchina del lavoro mi ha preso la mano. Ora lavoro tantissimo e mi sembra che sia un destino perenne. Non mi ricordo più perché ho cominciato.


Tutti lavorano, non fanno che lavorare. Se incontri qualcuno alle sette di sera, sta tornando dal lavoro. Se telefoni a qualcuno, ti parla subito di lavoro. Anche la Rita – gli ho mandato una mail, oggi – non mi scrivi più?. Anche la Rita dice: Sono presissima dal lavoro.
Ma perché lavoriamo tanto?


All’inizio, sì, lo sapevamo: ci siamo messi sotto per guadagnare i mezzi per poter godere della vita. Cioè, smettere di lavorare. Ma poi, la cosa sembra non finire mai. Il lavoro occupa tutto il tempo. Vi si espande come un odore – a volte, come una scorreggia: riempie tutto lo spazio del presente e del futuro. E se guardi indietro, ti sembra che anche tutto il passato è pieno di quell’odore.


I motivi per lavorare si moltiplicano all’infinito. Se ti metti a fare la lista, domattina sei ancora lì. Però, la vera ragione, ce la dimentichiamo.


Carmen mi guardava in quella maniera. Lei si accorge quando una domanda tocca sul vivo. E sembrava dirmi: Sì, chieditelo.


Perché lavoro così tanto? E in questo modo?


No, non voglio evadere le mie responsabilità. Non sto dicendo che sono stufo di lavorare. Voglio proprio dire questo: lo so il motivo, la ragione di questo lavoro? Insomma, sto lavorando per qualcosa o lavoro solo perché lavorare è come mangiare, dormire, leggere il giornale… una cosa scontata, un destino?
Insomma, perché il lavoro mi toglie la consapevolezza di un motivo, di un fine, di un senso?


Di fronte agli occhi di Carmen, ora mi ritorna in mente: io lavoro per smettere di lavorare e vivere in un altro modo. Ma quando? Tra quanti anni?


Carmen continua a fissarmi.
Mi sta smascherando. Sta smascherando le cose che sto per dire. Quelle che vengono subito dopo sulla lingua.
E allora, non le dico neanche. Rifletto.


Lo so bene che la logica del “prima… e poi” è infingarda. Lo so, l’ho imparato in tante situazioni. Inutile che dica: prima mi metto da parte un gruzzolo sufficiente e poi… Questa logica rimanda all’infinito la ragione per cui lavoro.


Bisogna che ci sia una situazione per passare subito, adesso, a quel tipo di vita. E, in fondo, una volta che facessi fortuna, starei forse con le mani in mano? Ma neanche per sogno.


E allora, bisogna che esca subito dalla situazione di uno che lavora e entri nella situazione di uno che opera gioiosamente e crea la sua felicità. Subito.


Carmen mi fissava e io cominciavo a vedere che era il mio modo, il mio stile, insomma come lo vivevo io, questo lavoro, il punto decisivo.


Sì, mi sembrava d’intuire qualcosa. Qualcosa che faceva la differenza. Qualcosa che dipendeva da me. Qualcosa che era una mia decisione.
E mi si allargava il respiro, mentre mi aprivo al sapore di questa intuizione.


Ai corsi di formazione ci avevano presentato il pensiero creativo come un modo bellissimo di usare il cervello affinché potessimo ottenere sul lavoro risultati migliori. Ma ora vedevo che la creatività era molto di più. E si svincolava dai legami obbligatori ai risultati delle nostre performance lavorative. La creatività ci riguardava in prima persona e totalmente. La creatività riguardava la domanda che mi stavo facendo.


Perché lavoro così tanto?


Belle Notizie


Sabato 29: partenza per Pietrasanta. La mostra si intitola ancora a La Testa delle Donne. Ecco l’indirizzo del locale:

ART CAFE’ 41, via Stagio Stagi, 41. Inaugurazione alle 18.30. Presente l’Autore. Contatto: 347.5168153.

Pietrasanta è la casa di Botero. Chissà se il famoso artista si accorgerà di me?

 

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Il quadro: Chieditelo! (acrilico su tela cm 100 x 100)

Eugenio Guarini
http://www.eugenioguarini.it

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