Il giovane ruscello

2171 Ruscello, acrilico su tela, cm 100×100

Vedo i movimenti delle braccia e della spatola. I gesti con cui spremo il colore e poi lo spalmo, la concentrazione con cui decido a fiuto i colori da mettere, pescando in quello che ho a disposizione.

Sto puntando al contrasto. Voglio che i colori siano fortemente contrastati. Mi sembra che di qui nasca un effetto energia destinato a caricare l’osservatore.

Vedo un paesaggio mentale, con un ruscello che corre snello tra i prati in pendenza, come il Giovane ruscello di Angelo Silvio Novaro, che risale ai tempi lontani delle mie elementari.

Capisco e sento che il destino del ruscello è di correre a valle e non può accogliere la preghiera del bambino che gli chiede di fermarsi per giocare.

Penso che quelle poesie, con le loro assonanze e rime, erano meravigliosamente innocenti. Che solo più tardi sembrava che fossero stupide. Solo tardi sembrava che l’intelligenza dovesse essere più severa. Pessimismo della ragione, ottimismo della prassi. Il che sembra voler dire che si deve credere in ciò che si vuol fare senza una ragione che lo giustifichi.

E in effetti, l’azione si rivela capace di andare piuttosto oltre le ragioni della conoscenza. L’azione non aspetta la conoscenza. Non si fanno le cose che si pensano. Si pensano le cose che si fanno.

Nel quadro mi attrae quel punto centrale più oscuro, dove immagino un folto ceppo di sterpi e arbusti vigorosi che affonda le radici vicino all’acqua e si slancia con movimenti selvaggi verso l’alto. È una sensazione epidermica che conosco per averla vissuta nell’infanzia toscana, quella di essere lì in mezzo.

Credo che i miei quadri abbiano una sorta di segreto richiamo alla vita selvatica, agli elementi della terra, delle piante, dell’acqua, dell’aperto.

Sospetto che rappresentino una sorta di fuga dall’artificiale, dalla città. Dalle periferie polverose, dall’immondizia dei cassonetti e delle discariche, dai cocci di vetro e dai vasi rotti, dal fumo che esce dai tubi di scappamento, dallo smog.

Se penso alla città e alla modernità che amo, vedo vetrate pulite, aperte su parchi, biblioteche spaziose e sanamente illuminate, terrazze con vista mozzafiato.

Ma volto le spalle al traffico della tangenziale e al clangore dei claxon.

Sento dentro di me come una lotta in cui io finisco per fuggire e andarmi a rifugiare in campagna, in un bosco, in un orto, in un giardino.

I miei quadri sono un rifugio per l’anima.

E se mi sconcerta e m’imbarazza in qualche modo avere da biasimare aspetti del mondo in cui vivo, avere queste immagini campestri o boschive, qui vicino, a portata di mano, esercita un effetto rassicurante e pacificatore.

E mi rendo conto che è grazie a questo immaginario campestre che riesco a tollerare di vivere i miei sogni in un ambiente largamente inquinato.

Categorie: Eugenio Guarini