La vecchia Parigi

Dalla finestra si può vedere un incantevole paesaggio, ordinatamente disegnato dai vigneti e dai casolari sulle colline. Isabelle e Valerie hanno finito di pranzare. Isabelle ha preparato per la nipote una torta salata di zucchine e carote, arricchita da una base di besciamella con uova sbattute e parmigiano. Ha messo su un vassoio del prosciutto cotto e un salame al tartufo. Valerie non disdegna in queste occasioni un bicchiere di rosso del posto.

“È per questo che la mamma ha voluto chiamarmi Valerie?”, chiede la ragazza.

“Tua madre ed io – dice Isabella con uno sguardo sognante – eravamo innamorate della Parigi di quegli anni. Eravamo gemelle in tutto, anche nei gusti. A quei tempi andavano spesso a sentire Yves Montand, conquistate dal suo charme romantico. Era un bell’uomo, di origine italiana, di un paese della Toscana, Monsummano terme. Era in Francia fin da piccolo perché i suoi genitori erano attivisti socialisti e all’avvento del Fascismo vi si erano rifugiati. Negli anni in cui eravamo ragazzine spensierate, Yves visse un’intensa relazione con Edith Piaf, la cantautrice. Prima faceva lo scaricatore di porto. Fu lei a introdurlo nel mondo della canzone. Queste vicende ci facevano pensare che la vita era magica, che potevano succedere storie fatate. Yves ebbe molti amori, ma la donna della sua vita fu Simone Signoret, un’attrice che forse non hai mai sentito nominare ma che io amavo molto.

Era l’epoca d’oro di Saint-Germain-des-Prés; i giovani frequentavano il mondo intellettuale della Rive Gauche, portavano pantaloni di flanella, maglioni fino al collo e fumavano le Caporal. Anticonformisti, combattivi, devoti alla causa della giustizia sociale. C’era con loro anche Jacques Prévert, il poeta”.

“Come mi piace quando mi racconti della vecchia Parigi, zia – dice Valerie con una visibile eccitazione – Ho l’impressione che in quelle storie ci sia qualcosa di me, del mio desiderio profondo, del modo in cui immagino che dovrebbe essere la mia esistenza”.

“Edith Piaf aveva una voce straordinaria – continua Isabelle – C’è una canzone sua, che sento ancora spesso. Te la farò sentire quando smetteremo di parlare. Il testo era meraviglioso, diceva:

Non, rien de rien

Non, je ne regrette rien

Ni le bien qu’on m’a fait, ni le mal

Tout ça m’est bien égal.

Non rimpiango niente, né il bene che mi hanno fatto, e neanche il male: tutto questo per me è ugualmente bene! Noi eravamo così e lo sono rimasta sempre. Anche dopo la morte di tua madre, quella di mio marito e tutte le vicende, non certo prive di dispiaceri, che mi hanno condotto fin qui. Ripeto quelle parole con piena convinzione”. Poi, posando la mano sulla guancia di Valerie, “Ma tu non vuoi raccontarmi di te? Cos’era questo convegno di Alba? Cosa stai combinando? Non voglio vivere dei miei ricordi. Mi piace stare in questo tempo”.

“Sì, zia Isabelle – replica la ragazza – ho davvero tante cose da raccontarti. Ma non c’è fretta. E mi fa molto felice sentirti parlare. Sono circondata in genere da gente così piatta e noiosa che non mi par vero di trovare tanta vitalità in una zia di settant’anni”.

“Ah, ma oggi noi vecchi abbiamo tutte le fortune!” – Si riferiva al fatto decisamente gratificante di avere un’interlocutrice così giovane, che evidentemente non la considerava un peso della società. Poi pensò a tutto il parlare di crisi e alla difficoltà oggettiva per i giovani di trovare lavoro. “Il mondo è cambiato diverse volte sotto i mie occhi. Forse ora ci sono momenti brutti, ma passeranno e comunque l’importante è che uno sappia reagire diventando più forte, è importante che sappia crearsi il suo mondo interiore in cui abitare nella gioia. Un mondo di poesia e di musica”.

“Sì – ribadì Valerie con convinzione – ognuno deve fabbricarsi il suo mondo. Si raccolgono frammenti della realtà là fuori e si costruisce lo scenario della propria esistenza. Come fa una mia conoscente di Firenze che raccoglie pezzi di oggetti scartati, buttati nelle discariche e li assembra in istallazioni artistiche nel suo giardino. È una persona dallo sguardo magico, fotografa le lumache sulle piante, inquadra le foglie degli alberi e vi aggiunge un pensiero poetico, gioioso o umoristico. È così che bisogna fare della vita. Pigliare quel che troviamo e costruire delle opere d’arte. Parlami ancora di quella Parigi”.

Questa ragazzina le ricordava molto la sua giovinezza. Quella voglia di vivere, quell’entusiasmo corredato dalla fiducia innocente che tutto sarebbe stato buono per crearsi una propria storia avvincente. “Simone Signoret è stata una grande attrice, fino all’ultimo. Non solo quand’era giovane e bella. Ricordo un film in cui lei è ormai vecchia, dove rivelava un’umanità incredibile, la cui verità ti raggiungeva immediatamente il cuore, senza ragionamenti. È un film che puoi andare a ritrovare su Youtube. Da questo punto di vista, Internet è un miracolo ai miei occhi. Il film si chiama La vie devant soi. Simone Signoret è Madame Rosa, un’anziana ebrea che ha conosciuto Auschwitz e che in passato si difendeva “avec son cul”, vale a dire con la prostituzione. A Parigi, in Rue Blondel, in un quartiere in cui convivono neri, arabi ed ebrei, ormai anziana, Madame Rosa ha aperto una Pensione clandestina per i bambini che sono “nati di traverso”, dove le donne che si difendono con il loro culo lasciano i loro figli per qualche mese al fine proteggerli dall’Assistenza pubblica o dalle rappresaglie dei papponi. Momo, un ragazzo mussulmano di una decina di anni, racconta la sua vita vicino a  Madame Rosa e il suo amore per la sola “madre” che gli resta, questa ex prostituta divenuta grassa e brutta e che egli ama di tutto cuore e accompagnerà fino alla morte. Film come questi ci facevano capire quanto siano assurde le contrapposizioni tra razze, religioni, etnie, quanto siano stupidi i pregiudizi del moralismo, insomma nutrivano il nostro spirito di indipendenza e ci conducevano verso una sana spregiudicatezza”.

Valerie guardava sua zia, che forse era un po’ appesantita, ma non troppo, e che se non era più la bella donna che era stata un tempo, non era certo brutta e si domandava se nel raccontarle di Madame Rosa non si concedesse una qualche forma d’identificazione. Poteva essere certa invece che il titolo del film, La vie devant soi, non era tato messo lì a caso. A sua zia premeva molto che lei facesse delle scelte giuste per il suo futuro. Allora realizzò che era venuto il momento di parlare. Si alzò dalla sedia e si mise a camminare per la stanza, muovendo le mani con una certa eccitazione.

“Ecco, zia, ora ti racconto”.

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