Custodi del pianeta

Due risme di carta (5.a puntata) 

Custodi del pianeta.

Xavier e Valerie percorrevano la 460, la Strada del Parco del Gran Paradiso, a velocità moderata. Xavier aveva telefonato ad Alessandro che li aveva invitati per quel pomeriggio. C’era una piccola festa, aveva detto. Un semplice incontro con amici che lavoravano in campi simili. Se volevano vedere da vicino la realtà dei “bionieri”, come amavano definirsi, era l’occasione giusta. I due ragazzi erano un po’ frastornati, ma piacevolmente, come chi sta entrando in una realtà parallela e sta per fare delle scoperte. Una situazione gratificante, tutto sommato.

“Che pizza! – diceva Xavier con una lieve animosità – Questo mondo che ci hanno preparato è complesso e incasinato. Non potevano fare le cose un po’ più semplici da capire, un po’ più semplici da vivere? Non potevano fare le cose un po’ più per noi?

“Anche i nostri progenitori – replicò Valerie con aria rassegnata all’ineluttabile – scesi dagli alberi, dovettero trovare il mondo della giungla troppo complicato e faticoso”.

“Vuoi paragonare la società moderna alla giungla?”

“Perché no? Del resto è già stato fatto. Per un singolo che viene al mondo e che si trova tutto quello che è già lì, voglio dire, quella scuola, quelle istituzioni, quelle abitudini, quelle regole sociali, quelle autostrade, quella città, quella produzione di massa, quella grande distribuzione, gli affitti e le metropolitane, insomma tutto quello che già esiste e che non ha fatto lui, è esattamente nella stessa condizione di smarrimento dell’uomo primitivo di fronte alla natura ancora inesplorata”.

“Ma queste cose le abbiam fatte noi, non la natura”.

“Le hanno fatte loro, dovresti dire. Tu le hai trovate. E non hai partecipato alla costruzione della loro realtà e delle regole del loro funzionamento.”

“Vuoi dire che dobbiamo adattarci e che è assurdo pensare a qualcosa di diverso?”

“Non credo, Xavier, gli umani hanno sempre lavorato parecchio per modificare l’ambiente di vita dato e ci sono riusciti abbastanza bene, mi pare, almeno in questa parte del mondo. Hanno costruito le città, le ferrovie, i tunnel, i servizi igienici, l’acqua corrente e i termosifoni. E tutto il resto, naturalmente. La specie umana traffica in continuazione per migliorare la situazione, di solito spinta dai problemi che incontra, dalle sfide e anche dai desideri e dai sogni. Non c’è da pensare che oggi sia diverso da ieri. Anche oggi noi cerchiamo di adattarci quel tanto che è necessario, e nello stesso tempo di modificare le cose in maniera che assomiglino di più a ciò che desideriamo.”

Xavier si concesse qualche momento di riflessione per assorbire la sorridente saggezza di Valerie. Poi dovette dire la frase che rivelava di aver assunto un punto di osservazione più elevato e più universale nella sua preoccupazione:

“C’è da sperare che tutto questo non abbia un prezzo troppo alto. Hai pensato alla rivoluzione francese e alla ghigliottina, alle guerre mondiali, alle dittature, allo sfruttamento degli operai e dei paesi del Terzo Mondo? Possibile che non si sia ancora trovato un modo per cambiare in meglio le cose senza guerra e sangue? Senza terrore e dolore?”

“È un casino, Xavier. Io non saprei come raccapezzarmi in questa faccenda. Siete voi maschi che amate porre i problemi come preoccupazioni di sistema. Noi donne preferiamo guardare al nostro piccolo orto, in genere. Ci domandiamo come realizzare i nostri obiettivi e i nostri sogni scrutando il qui e ora, come direbbero gli orientali. Cerchiamo azioni che sono alla nostra portata. E io spero che non siamo costretti a dover fare scelte troppo eroiche.”

Ci fu un altro momento di silenzio, mentre la macchina solcava la sopraelevata che funge da circonvallazione di Pont Canavese. Sulla destra, in basso, vicino al torrente, gli impianti, ormai ridotti a archeologia industriale, di una vecchia manifattura che doveva aver alimentato un tempo la sua laboriosità con l’acqua del torrente e le mani abili e pazienti di uno stuolo di ragazze.

Era uno dei cotonifici della famiglia Mazzonis che ne aveva altri due a Torino e uno in Val Pellice. Poi la concorrenza delle fibre sintetiche, le difficoltà di esportazione, l’insufficiente innovazione dei prodotti, lunghi scioperi agli inizi degli anni Sessanta, gli aumenti del costo del lavoro, portarono l’azienda alla chiusura e al fallimento nel 1964.

Xavier risentì riecheggiare nelle orecchie i discorsi dei suoi genitori sulla crisi dell’era industriale e sulla concorrenza irresistibile di zone del mondo dove il costo del lavoro era scandalosamente basso. Sembrava che il destino fosse segnato. E i suoi genitori, rivolgevano a quel punto uno sguardo, venato da una leggera luce compassionevole, sul loro figlio, evitando di assumere toni catastrofici e cambiando discorso.

Sempre a destra, in alto, sulla dorsale della montagna che porta a Frassinetto, un originale edificio religioso, che la mappa indicava come la chiesa di Santa Maria in Doblazio. L’entrata delle valli dell’Orco e del Soana era uno scenario veramente maestoso.

“Questa gente, però – esclamò serrando impercettibilmente le mascelle, come per far fronte allo scoraggiamento che lo tentava – sta facendo qualcosa che non mi sarebbe mai venuta in mente”.

“È vero – replicò prontamente Valerie – Questa gente osa fare qualcosa. Non sta facendo solo discorsi. Ed è per questo che stiamo andando lì.”

“Davvero? Per cosa?”, chiese Xavier senza alcuna ragionevole necessità.

“Non credo che siamo qui per diventare contadini, o bionieri. Non credo che noi abbiamo questo desiderio. Ma certo abbiamo bisogno di confrontarci con le sfide che loro hanno affrontato. Stiamo andando a cercare un esempio”.

“Ecco, ci siamo – disse Valerie, indicando il cartello di Poc ma bon che con una freccia indicava di svoltare a sinistra. Attraversarono il ponte sull’Orco e subito dopo, allo spiazzo in cui la strada si divideva in due direzioni opposte, videro Alessandro, il volto sereno, il sorriso stampato sulle pieghe di una faccia colorata dal sole e dall’aria aperta. Parcheggiarono e lo seguirono sulla strada di sinistra, che porta a una località chiamata Case Sparse Bisdonio.

Quando arrivarono Alessandro additò loro un fazzoletto di terra recintata, con la serra dei pomodori, le zucchine, i filari di fagioli, quelli delle insalate, le melanzane, due cisterne. Dall’altra parte della strada indicò una costruzione nuova, tirata su quest’anno – disse – un edificio in mattoni vuoti ma con il tetto a lose, destinato a fare, sul davanti, da rimessa dei macchinari e degli strumenti, mentre, sul retro, ospiterà un laboratorio a norma per la smielatura e, se avrà l’autorizzazione, nella seconda sala, anche per la trasformazione dell’ortofrutta: marmellate, conserve, sale aromatico, dado vegetale.

Nello spazio frontale una ventina di persone, stavano parlando animatamente tra loro, l’atmosfera era di una festa tra amici, ma senza quei comportamenti smodati che di solito Xavier e Valerie trovavano e sopportavano per amor di quieto vivere nelle feste a cui erano abituati in città.

Prima di raggiungere la compagnia, Alessandro si volle intrattenere ancora un po’ con i ragazzi. Disse loro di aver avuto la serra ribaltata dal vento e un paio di allagamenti del terreno perché il ruscello aveva tracimato. Spiegò che l’acqua arrivava da Alpette, un rio in cui, per fortuna, l’acqua non manca mai. Disse loro che aveva messo dei tubi goccia a goccia per bagnare. Si tratta di tubi perforati ogni venti centimetri circa, da cui l’acqua esce goccia a goccia, appunto. “Serve per il risparmio idrico – spiegò – Quando tu annaffi con l’annaffiatoio, generalmente, tu allaghi e molta acqua va sprecata. Invece in questo modo il terreno assorbe piano piano e se ne nutre”.

“Quanta cura per l’acqua!” – commentò Valerie che seguiva il racconto con interesse evidente. Si trattava di cose di cui non aveva mai sentito parlare. Era quasi come entrare in un mondo parallelo rispetto a quello che conosceva.

Alessandro continuava a parlare senza attendere commenti. Diceva che la sua azienda era un’azienda agricola biologica. E sottolineava che i contadini del biologico sono forse i veri custodi del pianeta. A cominciare dalla conservazione della fertilità del suolo, si investono di responsabilità su una vasta serie di grossi problemi: le emissioni nell’atmosfera, il risparmio idrico, l’approvvigionamento energetico, la difesa delle piante, la biodiversità, la cura del territorio”.

“Che meraviglia! – esclamò Valerie – custodi del pianeta, la fertilità del suolo, ho sentito questi termini ogni tanto ai notiziari. È qualcosa che va molto al di là della raccolta differenziata che mal tolleriamo in città.”

 “Il biologico oggi non è solo cosa metti nel terreno – spiegava Alessandro – È anche educare il consumatore. Senza questa alleanza tra produttore e consumatore il biologico non ha speranza. E va anche detto che per crescere il biologico deve fare rete. E questo risulta ancora difficile da queste parti”.

A questo punto Xavier fece la domanda che più gli pesava trattenere: “Con questo piccolo orto si riesce a sopravvivere?” Alessandro rispose che non era affatto facile, ma neanche impossibile. Si era creata una rete di clienti amici ai quali vendeva i prodotti dell’orto e anche il miele, perché ha delle arnie in giro. Aveva ricevuto un paio di finanziamenti pubblici avendo dimostrato di avere le carte in regola. E così la sua azienda, Poc ma Bun, aveva preso il via. Ha una casa in pietra in frazione Boetti e il padre lo aiuta. Disse che il lavoro è molto – non ha un giorno libero – e spera di trarre un po’ di aiuto da una rete di scambi sparsa in tutto il mondo che si chiama Wwoofer. E conclude:  “Ma è una bella avventura, e soprattutto è la mia!”

“Venite – soggiunge – vi presento alcuni amici con cui condividiamo queste esperienze. Sono rari i momenti in cui ci possiamo concedere il lusso di stare un po’ insieme, ma fare rete è essenziale per noi!”.

(segue)

Categorie: Eugenio Guarini