Il lavoro visto dall’alto
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Della serie: la convalescenza
Il quadro: Il prato delle idee, acrilico su tela cm 100 x 100
Il lavoro visto dall’alto
Poco più di un quarto d’ora e sono alla frazione Milani, di Forno Canavese. Lascio la macchina nel piccolo piazzale sistemato accanto al Santuario. Un cartello annuncia che di qui parte l’alta via canavesana che porta al Monte Soglio , quasi 2.000 metri di altitudine, tempo di percorrenza sulle tre ore. La giornata è splendida.
La convalescenza mi fornisce un alibi facile per non applicarmi al lavoro. È quasi un paio di mesi che mi fornisco un facile alibi per evitare questa incombenza.
Il discorso di partenza è semplice e convincente: non potrai lavorare con efficacia finché non ritorni in possesso delle tue energie. Quindi occupati della tua salute, fuori, all’aperto, cammina!
La strada sale ripida. Attraversa una lunga foresta di faggi, dal tronco grigio argentato, protesi con i fusti robusti e i tentacoli pluriramificati verso un cielo terso come i sogni dell’infanzia.
Io soffio. Ho smesso di fumare – due pacchetti di sigarette al giorno – da un paio di mesi. Gli spazi alveolari sono ancora barricati, ma già avverto un mondo dimenticato di sapori e di odori. Ed esploro un universo che si rinnova. D’altronde è primavera, anticipata.
Soffio, sudo, e procedo.
Il mio cervello lavora, ovviamente. Farfuglia. Ha inventato per questa cosa termini come Walking Management, oppure Therapeutic or Creative Pilgrimage. Forse sto cercando una foglia di fico per coprire le mie nudità di fronte allo sguardo severo dell’etica del lavoro.
Man mano che salgo e respiro, gli occhi si aprono a una scena che parla di natura e dimentica la civiltà. Ascolto il respiro che penetra nel corpo e avverto il piacere di essere al mondo, lì, su quella strada, sotto quel cielo, con quella temperatura.
Salgo di quota e ora posso già vedere la pianura distendersi lontana e bassa. Vedo Forno, Rivara, Favria, Rivarolo, Feletto, e laggiù, più lontano, Chivasso, Torino e la collina oltre il Fiume Po.
Pensare al lavoro da questa altitudine lo rende diverso. Non è come trovarselo sotto il naso tutti i giorni. Viene, per così dire, ricollocato, ridimensionato.
Arrivato in cima, dopo un lungo silenzio, mi domando: Erano qui, a portata di mano, queste possibilità. Perché non ne ho mai approfittato in questi trent’anni di permanenza in questa geografia? Cosa mi ha trattenuto dall’andare girovago, vagabondo, per mari e monti?
La risposta è facile: il lavoro. Un po’ più accurata: l’attaccamento al lavoro.
Da quassù è intuitivo: l’attaccamento al lavoro ha costruito attorno al mio nucleo vitale una geografia piuttosto ristretta e limitata.
E vedevo i miei quasi settant’anni avviluppati attorno al nocciolo magnetico del lavoro. Certamente interessante, voluto, amato, luogo adeguato di espressione personale… ma, sotto questo grande cielo, e da quest’apertura d’orizzonte, così piccino!
Come sarebbe più bella la vita del vagabondo!
Capisco che questa convalescenza potrebbe rivoluzionare la mia vita.
Categorie: Eugenio Guarini