Categoria : Eugenio Guarini
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il quadro: albero rosso.
L’albero rosso.
Sì, una bella avventura. Ma perché la trovo bella?
Perché ogni giorno ho questa idea ossessiva che alimenta il mio entusiasmo e la mia operosità. Mi sveglio e subito mi dico: ecco, mi metto a lavorare per costruire la mia cattedrale. E incomincio a farmi le domande giuste, quelle che mi mettono a fuoco. Come essere, prima ancora di cosa fare. E poi, come lavorare alle cose che voglio fare.
E tutto questo, libero da padroni, da orari imposti. So che dipende da me usare bene il tempo – e sinceramente non ho voglia di sprecarne neanche un briciolo.
Un’avventura che trovo bella anche perché non sono ancora morto di fame – come avevo paura che avvenisse nel momento in cui facevo il primo passo. Voglio dire che la vita ha risposto con benevolenza alle mie intenzioni.
Ho avuto fede, continuo ad alimentare la fiducia ogni giorno – è la prima cosa che la voce interiore mi chiede. Andare avanti con fiducia. Il che vuol dire, tradotto nel mio linguaggio approssimativo, sentirmi affidato, decidere di vivere come uno che si fida di ciò che la vita porta in ogni momento.
Io seguo i richiami degli eventi. Non sono passivo. Per me, seguire vuol dire darsi da fare per leggere indicazioni, inventare risposte, tracciare itinerari che vanno da qui a lì. Ma lo faccio da affidato. Penso a lavorare e affido i risultati alle forze misteriose della vita – forze che non conosco, che non sono in mio potere, ma che voglio amiche.
Ed è così che non sono ancora morto di fame. Per nove anni ho ricevuto risorse abbastanza da continuare a viaggiare in questo modo per le strade dell’essere. E la mia speranza è di portare a compimento tutto quello che aspetta in questo viaggio.
Di fatto, non si è trattato solo di dipingere.
Si è trattato di fare i conti con me stesso. Accettarmi, innanzitutto. Ho capito presto che non si trattava di recitare una parte, anche se ideale. Si trattava di essere. E che dovevo mantenere il contatto stretto e sincero con ciò che sono, con ciò che sento davvero, con ciò che penso spontaneamente. L’ho chiamata integrità questa aspirazione. E mi sono reso conto che così facendo il mio sentire cresceva all’interno della spontaneità. Mutava restando spontaneo. Diventavo più gentile con me stesso e con il prossimo senza sforzi di volontà. Era bello assistere a questa trasformazione. Ho capito che la mia cattedrale, quella per cui lavoro ogni giorno, non era solo qualcosa là fuori. Era me stesso. Io stavo lavorando a costruire me stesso nello stesso processo che era intenzionato a costruire un successo là fuori.
Ho capito presto che il perfezionismo era una trappola. Non dovevo fare cose perfette. Dovevo fare. Non dovevo essere perfetto tutti i giorni: dovevo semplicemente ricominciare ogni mattina. Mi sono specializzato nell’arte di ricominciare ogni mattina. Di rinascere.
Qualsiasi cosa fosse capitata il giorno prima, bella o brutta, io la lasciavo andare e, al risveglio, mi dicevo: nasco adesso. Sono nato ora. Incomincio adesso.
Ho il desiderio di essere una benedizione per tutti quelli che incontro nel mio cammino. Ce l’ho dentro, non è un proposito della volontà. Diciamo che mi piace pensare una cosa del genere.
Ma non faccio niente per recitare una parte. Non voglio essere più buono di quello che di fatto sono. Né voglio amare più di quanto un altro accetti di essere amato.
Semplicemente, mi fido. Mi fido che restando fedele a me stesso sarò come un albero fecondo. E che altri mangeranno dei suoi frutti.
Un albero rosso? Come il quadro che qui allego?
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