Tu dici tante parole

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Tu dici tante parole.


Impertinente, certo. Perfino insopportabile. La ragazza era venuta con il notes per gli appunti. Diceva: Andiamo al sodo. Non fare tanti giri di parole. Non siamo nel paradiso degli artisti, siamo in una società commerciale, per di più in crisi, che si caga addosso per la paura di perdere gli spazi di mercato che ha conquistato in passato, a vantaggio di concorrenti ruggenti, che vengono da paesi appena esplosi.


Era intelligente, certo. E perfino disperata. Nel suo modo di perforare le cose, aveva l’angoscia di chi non sa chi è ma si preoccupa per l’andamento del mondo. Quel misto di scetticismo, volontà di potenza, e disperazione che si ritrova spesso oggi in chi è giovane, non sistemato, convinto che bisogna lottare, e deciso a non lasciarsi andare alla deriva.


Era anche bella. Occhi profondi e sopracciglia ben marcate, quasi spesse. La bocca turgida, aggressiva. Avrebbe potuto baciare, ma parlava e voleva mordere. Sicuramente aveva addosso una gran voglia di ferire. Immaginavo che ce l’avesse col mondo, così com’è fatto. E che approfittasse dell’occasione offerta da questa intervista per darci dentro.


– Parla del concreto. Non di sogni. Ce l’hai fatta? Sei sopravvissuto? Hai venduto? Come hai fatto? Io voglio sentirti dire quello che riguarda i comuni mortali che devono campare, vendere quello che hanno – tempo, oggetti, servizi… – e che non vanno a dormire serafici la sera, cullati da metafisiche visioni,  e che non fanno meditazioni in movimento lungo il torrente, la mattina. Ma si addormentano con l’angoscia di chi sta soffocando dov’è. E si svegliano con l’angoscia di chi non sa assolutamente cosa fare per trovare la propria strada, per realizzarsi e – dio me ne guardi – far fortuna…


Aveva sempre quel fuoco addosso. Lo sentivo sulla pelle. Non ero irritato. Mi faceva pensare. Mi dava da pensare. Pensare mi piace. Mi sento vivo. Pensare fa parte della vita. Non le rispondo a tono.


Ho tante idee – le dico – ma non so nulla sulla natura dell’idea. So una specie di repertorio di idee sull’idea. Ma questa è cultura. Voglio dire, di quella che s’impara a scuola. Ma questo non è il punto.
So per conto mio, dell’idea, che è una potenza. L’idea, quando c’è, quando arriva, quando la trovi, ha la capacità di riscattare la cosa, l’esistente, dalla banalità, dall’ovvio. E lo solleva oltre, lo porta nell’altrove. E lo spessore di quest’altrove è il segnale della potenza stessa dell’idea.
L’idea è come il lievito nella pasta. La rende pane, leggero e nutriente. Saporito. Ha un gusto e un senso. L’idea è lo spirito che porta la natura ad essere quello che deve essere. Andando oltre l’esistente, il dato di fatto, l’ovvio, il banale. La natura, il fatto, aspirano all’altrove. È l’idea che li conduce lì.


Cazzo di discorso mi fai. Che me ne importa dell’idea. Voglio sapere come hai fatto a vendere, che decisioni hai preso, che strumenti hai utilizzato per la visibilità, La pubblicità?


Si chiamava Inge, credo. Doveva essere di Francoforte. Ma di famiglia italiana. Vedevo in lei la ragazza che ha studiato, messo a punto alcune sue qualità, che ha sperato di far fortuna, si è buttata a pesce nella società dell’immagine e dei mass media… Il resto me lo raccontò lei, la dimensione privata, la dimensione parallela. Senza mezzi termini mi ha detto di quante volte ha dato il suo corpo, e ha succhiato il corpo di uomini bastardi, falsi, incapaci d’amare. Per cosa? per andare fino in fondo all’abisso. Per attraversare da parte a parte il bosco, nella speranza di trovare un terremoto che la destrutturasse, che la facesse approdare ad una sorta di innocenza.


Anche questa volta, non le ho risposto a tono.


L’idea non la produci- le ho detto – La trovi. O è lei che trova te. Per seguire l’idea bisogna rimpiangere l’infanzia. Prima. Dopo bisogna trovare il coraggio. Il resto è decisione e intelligenza.


Mi hai rotto i coglioni con queste metafore – ha detto. Parlami delle tue scelte, delle tue intuizioni, restando qui, su questa fottutissima terra.


Ho cominciato a dipingere. Ero convinto che i miei quadri incorporassero passione e spontaneità  che accumulassero in loro l’energia che sentivo vibrare dentro. Erano semplicemente belli.
Poi ho capito che dovevo vendere. Non volevo le gallerie e i mercanti, il mondo ufficiale del mercato dell’arte. E sono andato nelle salette comunali e nei locali. Lì incontravo la gente. E ho capito che stavo parlando ai giovani, ai trentenni. A quelli cioè che stanno cercando di realizzare nella loro vita un viaggio avventuroso. Ho capito che quello era il mio pubblico, la mia gente e sono restato vicino a loro. Anche nel prezzo. Loro potranno avere un Guarini a un prezzo accessibile.
Ho moltiplicato le esposizioni. Ho venduto abbastanza da essere qui, vivo, a parlare con te.
Ma quello che tu non capisci – o non vuoi ammettere – è che tutto questo dipende da un’idea. Non da strategie di marketing. Non da campagne pubblicitarie. Solo dal passa parola. Il passa parola di giovani ontonauti che trovavano nei miei quadri risorse e stimoli per il loro viaggio nella vita.


Inge aveva occhi molto grandi.
Si accendevano quando scriveva su quel notes.
Inge aveva un approccio suo alle questioni.
Era intelligente.
Mi domandavo cosa avrebbe fatto da grande.

Eugenio Guarini
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