Pene d’amore e talenti

– Questa è la cena dei single! – disse Daria con un’esplosione improvvisa d’ilarità.


Stavano sistemando piatti e bicchieri sul tavolo allargato della sala grande, lei ed Angela. Avremo cenato in mezzo ai quadri. Sui piani di lavoro del cucinino, mi davo da fare con il trito di cipolla, carota, sedano e rosmarino. L’acqua per la pasta stava riscaldandosi.


Non avevo ancora pensato alla situazione dalla prospettiva aperta da questa parola. Single! Dunque, nel frattempo, ero diventato un single. Non sapevo se gioirne o rattristarmene, ora che mi veniva suggerito un termine per definirmi. Ho sempre un rifiuto istintivo per le definizioni. Avverto che sono una trappola. Questa poi sembrava suggerire una sorta di status permanente, come il confino in terra d’esilio. Che palle! Sì, certo, Daria. Angela ed io, in questo momento eravamo senza un partner, qualcuno di cui dire il mio ragazzo, la mia ragazza. E allora? Non c’era molto di più?


La mia vita, nelle ultime settimane è stata molto intensa, ricca di sorprese e animata da ispirazione creativa al massimo livello. Gli amici mi si sono moltiplicati accanto. Avrei potuto affermare che ero un artista in uno dei suoi momenti più intensi e fecondi. Mi rispecchiava meglio.


– Non ci sono uomini all’altezza della situazione – disse Daria – è desolante. Mezze cartucce d’uomo. Presissimi dal lavoro, dallo sviluppo professionale, ma incapaci di affrontare con coraggio la sfida di una passione…


– Sai che ti dico? Non bisogna svendersi – asseriva Angela – è deprimente. Svendersi mettendosi con uomini di mezza tacca, solo perché non ne trovi tanti in giro che rispondano alle tue attese. Ci perdi la dignità. Alla fine ti avveleni, ti smarrisci…


Era scontato che si sarebbe andati avanti a parlare d’amore, dell’impossibilità dell’amore di coppia, delle ferite d’amore per tutta la durata della cena. Ma un po’ per volta, nel calore del discorso, emergeva un tema il cui gusto mi caricava d’energia e vigore. Come il gusto di certe vivande che affiora solo dopo un po’ che mangi e che porta qualcosa di stabile e di sostanziale nella percezione del tuo corpo. O come avviene per certi vini: un sapore che emerge solo in seconda battuta ma s’impone come il messaggio sostanziale della bevanda…


Dio! C’è un sole improvviso mentre scrivo. È già un altro giorno. Cominciata gelida, glaciale, la giornata si rovescia ora come un calzino. E ieri sera mi sembra, nel ricordo, un momento d’intuizioni dense di nutrimento. E sento ancora quel retrogusto che è andato intrecciandosi con la mia sostanza.


Quello che vedo è quanto le pene d’amore, un abbandono, una profonda delusione, aprano il territorio per una riscoperta di sé, un allineamento con il richiamo che ti abita, un flusso di genuina energia che attraversa un canale di ritrovata integrità. Un territorio dimenticato dove puoi ristabilire il tuo rapporto con la Vita, nel suo insieme, globalmente.


Nella mia testa quella discussione accalorata viene ad intrecciarsi con i discorsi fatti con Bruna, qualche giorno prima.


Bruna si occupa di talenti. Credo che voglia cercare per quella via un itinerario di dignità umana che sfugge alle prigioni e ai rovi del grigiore e della routine. Lo fa per gli altri. Lo fa per se stessa.


Diceva, mentre sorseggiava il bianco con cui alleggerivamo il risotto alla trevigiana: “Stiamo facendo indagini su indagini, produciamo elenchi su elenchi…” Mi porgeva un foglio dove c’era una lista lunghissima di nomi, ognuno dei quali indicava un talento. Citava Gardner, quello delle intelligenze multiple.


– Bene – diceva – oggi sappiamo che non è intelligenza soltanto quella che riguarda le parole e quella che concerne i numeri… Tante altre cose sono intelligenza. Questo ha aperto l’orizzonte…


Si moltiplicano metodologie descrittive per riconoscere i talenti, classificarli, o anche solo elencarli. Si producono batterie di test per decidere quanto ne hai di questo e di quest’altro…


Mi sembra che il discorso sui talenti, nato come intuizione fresca e liberante, si stia appesantendo, stia creando polverone. Vorrei un’intuizione che rimetta tutto in circolo, che rilanci lo slancio e l’innocenza, che accenda l’entusiasmo…


E mi è venuta in mente la vecchia parabola dei talenti. Il termine circola nel nostro linguaggio a partire quasi certamente da quella fonte. Un giovanotto ha ricevuto dal suo padrone un talento. Con questo capitale in tasca non sa cosa fare ed è agitato. Pensa innanzi tutto che i ladri glielo possano rubare. Sa che si tratta di una ricchezza e vuole salvarla dal rischio del furto. Non trova niente di meglio che nasconderla. Fa un buco sotto terra e ce la ripone.


La seconda scena è quella del rendiconto finale. Il padrone vuole vedere che cosa il ragazzo è stato in grado di fare. Trullo trullo, il ragazzo gli rimette in mano il capitale ricevuto. Vedi? Eccolo qua. C’è ancora. L’ho conservato! Non me lo sono fatto fregare!


Ma il padrone è incomprensibilmente severo. Non hai capito niente! Con questa ricchezza in mano potevi moltiplicarlo, il mille per cento! Diavolo! Sei proprio uno gnocco! Hai sprecato un’opportunità che ti poteva arricchire e poteva arricchire il mondo. Almeno, se proprio non ci sei, potevi darlo a coloro che sanno farlo fruttare. Invece, che fai? Gnocchetto! Lo sotterri. Male ragazzo mio. Molto male.


Ammettiamo che il termine e la problematica che esso solleva siano entrati in questo modo nella nostra cultura occidentale. Che sia questa metafora all’origine di tante riflessioni e domande.


Il contesto è quello di un rendiconto estremo (col creatore, con la vita, di fronte alla morte) sul senso dell’esistenza. Il presupposto è che quello che sei, quello che ricevi (tutto) deve avere una fecondità. Lo sfondo è uno scenario in cui ci vuole impegno e intelligenza e cura per fruttificare. Non basta conservare, difendere, restare lì, così. O fruttifichi o sei nulla. Viene in mente anche la maledizione di Gesù al fico sterile. Chi è sterile è maledetto.


La legge della vita presupposta è quella della fecondità e della creatività. Non quella della conservazione. Chi non si muove non sta: va indietro. Semplicemente perché l’universo va avanti, vuole andare avanti.


Ma anche il confronto con certe domande estreme: che senso ha la mia vita, che cazzo ha fatto finora, cosa resterà di me quando sarò morto, cosa vorrei pensare e dire sul letto di morte… ed altri interrogativi del genere che ci rivolgiamo in certi momenti critici della vita. Credo che questo confrontarsi con la domanda estrema sul significato di quello che stiamo combinando accentui molto l’intelligenza giusta per mettere a fuoco il discorso sui talenti.


Il talento nasce, dunque, nel contesto aperto da uno sguardo che s’interroga su come può far fruttare quello che ha, quello che c’è. Invece della domanda “che talenti ho?”, suggerisco la domanda “Sto sfruttando al meglio quello che ho?”, oppure: “Come potrei ricavare il massimo da questo?”. Ed è così che quello che c’è, quello che rimaneva lì sullo sfondo, o addirittura quello che pareva una mancanza, diventa una risorsa per…


Anche la mancanza di una donna, o di un uomo all’altezza delle tue aspettative…

Eugenio Guarini
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