Lettere da Nosolandia 26
Lettere da Nosolandia 26
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(Disegno: “Danze sacre”, cm 120×90)
È abbastanza comprensibile che ogni forma di medicina si sia focalizzata sulla malattia per sviluppare il suo sapere e la sua terapia. Ultimamente però sta crescendo una nuova forma di indagine che non si chiede più cosa provoca la malattia, ma cosa fa sì che le persone stiano bene. Quest’indagine sulle condizioni e sui fattori che determinano il benessere è assolutamente meritevole. Le sue conquiste finiscono per valere anche per i malati e soprattutto per prevenire patologie devastanti. E soprattutto consente di uscire da una visione negativa della salute.
Ai malati serve molto sapere che ai traumi dell’insorgere di malattie gravi non segue necessariamente una decadenza definitiva della vitalità (depressione e rinuncia) ma che esiste una reazione positiva, dopo un breve periodo di depressione.
Molte persone sanno trasformare il trauma in una crescita. Esse riferiscono col tempo che, dopo il trauma, hanno apprezzato di più la vita, hanno capito meglio le questioni spirituali, hanno dato una nuova direzione alla loro esistenza, si sono sentiti più vicini agli altri, si sono impegnati di più nelle relazioni e hanno scoperto di essere più forti di quanto pensassero.
È importante saperlo perché uno può credere che, dopo quello che è capitato, sia un destino diventare depressi e non avere più voglia di vivere.
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(Disegno: “Bufali rossi negli acquitrini”, cm 120×90)
Nel cuore del mio lavoro (non oso quasi chiamarlo così perché in definitiva mi piace così tanto che appartiene più al piacere che alla fatica) c’è sicuramente un grande amore per me stesso, per la vita che mi è stata regalata, per i miei desideri che mi fanno gioire delle giornate che mi stanno davanti, per la capacità di pensare e usare il pensiero e l’immaginazione per guidare la mia avventura.
Non è sempre stato così. La mia educazione mi aveva predisposto diversamente. Questa cosa veniva chiamata egoismo e l’accezione era negativa. Il sacrificio e l’amore del prossimo veniva prima dell’amore di sé. Il discorso della morale e della religione cadeva a piombo sui desideri dell’individuo. Il dito puntato era minaccioso e severo.
C’è stata una lunga storia perché arrivassi a ribaltare queste opinioni. C’è stata una catena di ribellioni, anche piuttosto reattive e istintive. Sotto il segno del senso di colpa e della vergogna. Ma alla fine s’è fatta strada la convinzione che ciò che valeva per prima cosa per me ero io stesso, la mia vita, la mia salute, le mie emozioni, i miei desideri e i miei progetti, la mia gioia e il senso che riuscivo a dare con sincerità alla mia esistenza. Perché, diciamolo, molti predicano come se lo sapessero, ma la realtà e la vita non dicono mica con chiarezza che senso abbia tutta questa cosa. Stanno piuttosto in silenzio e a stare a quel che succede il mondo non è davvero un parco giochi.
Ho imparato un po’ per volta a non lasciarmi intimidire dalle cattive notizie. Ho acquistato più fiducia in me e ho preso delle decisioni che si sono rivelate felici a posteriori. Senza dubbio, quella con cui vent’anni fa ho deciso di fare l’artista. Ho avuto molti bei risultati finora e ho lavorato tanto, come un bue. Ma è stato un lavoro diverso, quasi senza fatica, anche se in certi momenti inquietante. La passione e il desiderio mi hanno sempre sorretto. E anche una certa creatività nel trovare alternative per raggiungere gli obiettivi.
Un po’ per volta mi sono reso conto che le caratteristiche di questo lavoro d’artista non valevano soltanto per il pittore. Erano caratteristiche che ritrovavo in ogni persona che costruiva creativamente la propria esistenza, anche senza fare cose strabilianti. Anzi, il piacere di applicare la creatività alle piccole cose della vita quotidiana mi è sembrata una forma bellissima di arte. Ho capito che la mia attività di pittore era solo un laboratorio per imparare forme di creatività per la vita nella sua globalità.
E tutto questo perché ho imparato a volermi bene. E anche quando mi dedico alle persone che incontro e che contatto, in fondo lo sto facendo esattamente per quell’amore di me stesso che è il cuore della mia avventura.
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(Disegno: “Verso sera”, cm 120×90)
Mio figlio Giulio vive in barca e potrebbe parlarne con competenza e dettagli. Per me la barca è fondamentalmente una metafora, un’immagine nella fantasia. Ma in quanto metafora mi dà un modo per mettere un po’ d’ordine nei pensieri e nella vita.
Verso sera nella mia barca si fa il punto della situazione. È il punto di una storia immaginata come un viaggio. Una storia che vuol essere un viaggio. Più mentale e interiore che fisico. Soprattutto adesso.
E adoro questo momento in cui cerco di ricordare il tragitto della giornata. Non ci riesco immediatamente. E mi stupisco come le cose facciano in fretta a scivolare nell’oblio. Ma mi costringo a ricordare le cose più rilevanti. Ne faccio un breve elenco. Le scrivo sul mio diario di bordo. E per un momento vedo il filo di una storia. Gli eventi e il loro dono. Esamino il modo in cui mi sono comportato. Mi festeggio e mi rallegro, nel caso. Altrimenti cerco d’immaginare miglioramenti per domani.
Non faccio ancora la rotta. Ci penserò domattina, all’alba. Perché mi sveglio presto. E sono fresco e lucido. Lo farò dopo la camminata meditativa. Che è un altro momento felice della mia giornata. È lì che il desiderio mi parla più chiaro. E che un po’ per volta diventa più chiaro. Io prendo il desiderio come si manifesta. Lascio che siano le cose a modificare il tiro, strada facendo. Mi fido del desiderio. Anch’esso ha la sua storia. Da nebuloso a maggiore chiarezza. Ma la chiarificazione avviene lungo il cammino. Mi piace essere sorpreso dalle pieghe che prende il desiderio. Sento che è lo stesso di sempre. Eppure ha cambiato molte volte aspetto.
Come me, del resto.
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(Disegno: “C’è del vento in Anatolia”, cm 120×90)
Sono stato alla visita di controllo. Gli esami sono buoni. La dottoressa dice che mi comporto bene. Io credo che la mia parte sia quella di tenere alta la guardia. La fiducia. La volontà di guarire. E lo faccio.
In ospedale ormai conosco quasi tutti, personale e pazienti. È più di un anno che lo frequento. Ci scherziamo sopra, ritrovandoci, tra pazienti. Le lunghe attese immusoniscono, ma una battuta sembra svegliare il buon umore sopito dentro dei corpi provati.
Non cerchiamo di essere intelligenti, o arguti. Ci basta provocare un leggero moto di reciproca benevolenza.
In fondo, abbiamo tutti voglia di guardare fuori dalla finestra. Di dimenticare la malattia, almeno per un po’. Di pensare alla vita, ai sogni, ai desideri, ai progetti. Abbiamo bisogno di sorridere sulle grosse domande cui non sappiamo rispondere.
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(Disegno: “Sbandieratrice”, cm 120×90)
Sono sceso presto nei giardinetti sotto casa per camminare. In un’ora ho fatto tremila passi. Sono ancora molto lontano dai diecimila che suggeriscono di fare. Ma sono anche già piuttosto distante dagli “zero passi” di alcuni mesi fa. Un po’ per volta. Come in tutte le cose.
Pensavo, durante la camminata, che sono abitato da sogni forti, che mi spingono a camminare anche in un altro senso. E avvertivo la ricchezza di questo fatto. Insomma sentivo quanto era bello essere vivo, con dei desideri da realizzare e la voglia di farlo. Questo rendeva la mia vita una bella avventura. Ed ero io a inventarla.
Sentivo forte il potere dell’immaginazione che anticipa le cose creando un proprio mondo. E immaginavo che fosse come creare una rete da gettare nell’oceano della realtà, con l’intenzione di una pesca abbondante.
Il mio mondo non è il mondo, ma serve per pescare nel mondo.
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(Disegno: “Cucina da campo”, cm 120×90)
In realtà era per parlare. Perché apprezzavamo molto le persone con cui nel fine settimana si combinava di andare a fare una scampagnata, cucinando all’aperto, nel bosco o sulla riva del torrente.
Avevamo il pesce, o le costine, e l’immancabile insalata, con le bottiglie del vino e talvolta una bottiglia di grappa.
All’aperto era tutto più energico. La digestione e anche i nostri pensieri. Ci sentivamo esperti di tutto, pur sapendo di non conoscere nulla nella maniera che avremmo voluto. Ma le nostre parole, quelle che ci scambiavamo l’un l’altro, avevano un grande potere: ci inducevano a pensare.
Perché i pensieri non sono delle frasi incise sulla pietra. Sono momenti di un viaggio, di un cammino. Il pensiero vuole essere sempre vivo, vuole girare sulle cose con le sue capacità, e anche col senso dei sui limiti. E solo continuando a fare attenzione, a posarsi sui temi nei vari momenti della vita, solo così contribuisce alla vitalità del tutto.
E quelle discussioni non volevano scrivere una Bibbia. Volevano farci pensare. Pensare all’aperto. Che è molto diverso che pensare al chiuso, nel proprio studio, o nell’ambiente di lavoro.
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(Disegno: “Uccelli”, cm 120×90)
Gli uccelli sono il volo. E il volo è il sogno che crede in se stesso. Il sogno non come evasione, ma come visione dotata della fiducia di guidare i passi dell’azione. Ciò che trasforma la vita in una meravigliosa avventura dove si diventa e si realizza. Se succede qualcosa di bello e anche di straordinario è perché lo si è sognato (e si è avuta tanta fortuna). Ma dicevano gli antichi che la fortuna aiuta gli audaci. E sognare, credo, è l’audacia che perseguo. E che considero opportuna.
Categorie: Eugenio Guarini