Categoria : Eugenio Guarini
Categoria : Eugenio Guarini
Lettere da Nosolandia 15
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È come una lunga marcia, in fuga da un gulag. Ci vuole resistenza. Anche resilienza, come si ama dire oggi. E bisogna mantenere fresco in mente il ricordo di dove si vuole andare, perché si è innamorati di quella meta. Si va avanti anche quando non c’è cibo. E si mangia di tutto, anche i vermi o le cortecce di betulla. E poi si trova un luogo più ospitale. E ti rimpolpi. Ti radi la barba divenuta ispida. E ti lavi, ti ripulisci. E speri che il cammino bello duri a lungo. E in testa, rinnovi ogni giorno, il tuo sogno. Perché sei un uomo e questo significa che ti è dato di vedere e di godere la bellezza e la grandezza di essere libero e vivo.
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Al Mercato.
Anche oggi sole. Nessuna pesantezza alle gambe. La fisioterapia è stata andare al mercatino di Castellamonte, insieme a Veronica. Fragole giganti, arance e limoni di Sicilia, uova e cavolo romano. Il parcheggio facile. L’attraversamento della strada un po’ più rischiosa, ma gli automobilisti evitano di stendere un disabile che si muove con un deambulatore. Poi un pranzo coi fiocchi: trancio di orata gratinato al forno, e contorno di fragole giganti al succo di limone. La bottiglia di Arneis freddo di frigo e il pane casereccio di mia figlia Chiara.
Questa primavera mi porta con sé. Veronica dice: “E’ questione di testa!”. Sì, la testa conta molto. Conta l’umore. Conta il desiderio. Conta l’ambizione di fare qualcosa di utile ancora.
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Per molti di noi è necessario uscire da una sorta di situazione caotica e tendenzialmente disperata. Allora è una cosa favolosa imparare a percorrere la strada che ci pota fuori dalla mischia, ci isola dalle burrasche del mondo e ci consente di trovare la pace, l’equilibrio, l’armonia.
Per me è stato cosi, per un lungo percorso di anni. E in un certo senso la decisione di dedicarmi alla vita artistica è stata il punto culminante di questa prima tappa del viaggio.
Ma dopo che questa conquista sarà consolidata, e dopo che avremo nutrito la nostra anima e il nostro piccolo mondo della luce e del calore della pace e dell’armonia, potremo vedere senza esitazione e con un rinnovato slancio evolutivo, che il compito superiore che ci attende sarà quello di lavorare per rendere il mondo un posto migliore. Non c’è scampo a questa conclusione.
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Morire o rinascere?
Il malato grave non è necessariamente uno che deve rassegnarsi a morire. Dovrebbe cercare dentro di sé i desideri che ancora attendono e urgono per essere realizzati. Nella parte oscura e magari dimenticata di sé si annidano le grandi imprese che abbiamo sognato e poi messe in cantina. Non c’è niente di più tonificante per il malato che ritrovare dentro di sé il desiderio pungente e inquieto di realizzare un sogno. Gli arriva un’ondata di energia che di per sé è terapeutica e certamente collabora potentemente con i farmaci e gli interventi. Non è assolutamente raro che nel corso della malattia sono prese decisioni rivoluzionarie sul piano esistenziale e ne emergono veri e propri eroi della vita quotidiana, che con le nuove energie, l’esempio delle loro azioni ispirate e intelligenti, vivono la fierezza di dare, nel loro piccolo, un contributo al miglioramento del mondo.
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Incontrare
Credo che il vantaggio più favoloso di Internet (e dei social) sia la facilità che consente di incontrare persone e di servire con la comunicazione virtuale una migliore e più fondamentale comunicazione umana. La circostanza della malattia lo ha rivelato in maniera eclatante. E l’incontro virtuale, per essere creativo davvero, tende a incontri diretti offline e a collaborazioni sulla base di valori condivisi.
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Notte civetta.
La lunga degenza a letto e gli attacchi imprevisti di “fatigue”, che ti fanno scivolare nel sonno a ore impreviste, hanno sconvolto abbastanza i miei orari sonno veglia. In buona sostanza, passo molte ore notturne, a volte quasi tutta la notte, desto come un fringuello, addormentandomi al primo albeggiare.
Ho scelto la via più comoda: ho accettato la cosa e mi son messo a lavorare di notte (se di lavoro si può parlare). Mi sono reso conto un po’ per volta che la notte, col silenzio che avvolge ogni cosa e amplifica i gesti, crea una condizione favorevole alle idee bizzarre.
A me vengono in mente cose nuove cui ho cominciato a lavorare. M’immagino una comunicazione più stimolante e calda con i miei amici più creativi e sensibili. Letture di biografie rilevanti e di processi creativi.
Letture ad attacchi pirati, saccheggiando a casaccio i libri, ma sempre per trovare spunti e idee che tengano accesa la mente e mi suggeriscano applicazioni alle cose che sto perseguendo. Insomma questa sorta d’”insonnia” non è per nulla spiacevole (anche perché domattina non devo correre sul posto di lavoro).
Da sano ero un’allodola. Da malato son diventato civetta. E perché no?
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Incontrare gli altri su Facebook.
Voglio suggerire che essere coraggiosi può significare semplicemente entrare in contatto con gli altri, senza fare della scrittura o della parola un mito inaccessibile, una faccenda da artisti eccelsi.
Scrivere e parlare può essere la cosa più naturale del mondo. Non dobbiamo fare il grande romanzo europeo del XXI secolo. Quello che ci serve davvero è esprimere le nostre cose in maniera semplice e comprensibile, incontrare interlocutori che abbiano delle cose da dire, condividere e magari collaborare con alcuni di loro.
Lavorare in questo modo semplice al miglioramento del mondo, non fosse altro che nel migliorare la cucina, il lavoro a maglia, il rapporto con i figli, le relazioni di condominio, il sostegno ai malti, la diffusione delle buone idee, mantenere alto il morale e la fiducia di fronte alle cattive notizie, incoraggiare i tentativi dei giovani di inventarsi il proprio destino, ripulire il boschetto lungo il torrente del proprio paese, e cose piccole e accessibili (senza inibire ovviamente i progetti più ambiziosi).
Perché è un clima sociale che bisogna alimentare con i nostri gesti quotidiani. È il clima che influisce favorevolmente sui comportamenti e le decisioni della gente.
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Ebbene l’ho fatto!
Stamani alle otto e mezzo, dopo una notte completamente insonne (e operosa) mi sono deciso: sono sceso col deambulatore in completa autonomia (operazione ormai già collaudata), ho raggiunto la macchina e ho infilato l’attrezzo, ripiegato, nel vano posteriore (anche questo già collaudato) e mi sono portato all’IPERCOOP di Cuorgné. Mi sono sistemato nel parcheggio interno, vicino all’ascensore. E qui ho aggiunto un nuovo tassello al work in progress che mi vede impegnato: ho raggiunto la sedia a rotelle in dotazione al supermercato senza l’aiuto di nessuno, ho parcheggiato il deambulatore, mi sono trasferito sul nuovo strumento di trasporto, mi sono legata una busta capace a tracolla e sono partito per fare la spesa. Due tranci di cernia da fare al forno gratinati, uno oggi e uno domani, confezione di fragole, mandorle sgusciate, uva sultanina, una formella di formaggio caprino, una confezione di pasta sfoglia, un sacchetto di cioccolatini fondenti… Passo alla cassa veloce, del tutto automatizzata, pago con carta di credito, tenendo la borsa sulle ginocchia, raggiungo il deambulatore, poi l’auto e guadagno casa facendo tutto a rovescio. I sette gradini che mi separano dall’ascensore, superati atleticamente, portando alternativamente la borsa della spesa e il deambulatore ripiegato.
La soddisfazione e la gioia mi hanno fatto immaginare una colazione sul mare (tutta di fantasia, visto che, tra l’altro, oggi è coperto). Quello che resta della mia fantasia è il disegno che allego a questo post.
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L’amicizia spinge molti a usare nei loro commenti alle mie note da Nosolandia dei termini piuttosto impegnativi e risonanti, quasi che io fossi chissà quale tipo di eroe.
Capisco che dietro queste espressioni c’è dell’affetto e le accolgo con simpatia. Ma è bene, credo, per me e per i miei amici, prendere coscienza che quello che faccio per fronteggiare i vari aspetti deprimenti della malattia e per scegliere la vita ogni giorno, è esattamente quello che fanno tutti i miei amici che stanno attraversando l’esperienza di convivere con un tumore, con la chemioterapia, con la sclerosi multipla, con la mastectomia e via discorrendo. Potrei dire che ho imparato da ognuno di loro qualcosa che mi ha aiutato a mettere insieme la ricetta, peraltro piuttosto fragile e variabile, con cui cerco di far fronte a questa cosa. Di mio c’è, senza tema di vanagloria, un forte attaccamento alla vita e ai miei sogni. Trovo lì le risorse energetiche a cui attingere (almeno quando il dolore e l’handicap non mi schiaccia interiormente).
Quello che capisco meglio in questa malattia è che anche prima, anche quando ero in salute, c’erano gli stessi identici problemi da affrontare. Vale a dire l’urgenza di dare un senso e un valore alla tua vita quotidiana, mentre ti guadagni da vivere, mentre devi fare i conti con le cattive notizie che mostrano tutte le brutture che esistono, mentre cerchi di creare attorno a te un mondo di pace e di gioia che viene attaccato in continuazione.
Molto spesso le impalcature che ho creato per reggere il cuore e la speranza, si sono rivelate piuttosto fragili e vulnerabili. Ma ho pensato che ogni volta si doveva ricominciare a costruire.
Io credo che la malattia abbia avuto per effetto quello di sottolineare meglio aspetti generali del tentativo che ognuno di noi fa per aprirsi un varco nel mondo e realizzare un’avventura significativa.
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Conoscere se stesso.
Lo so che questa malattia mi potrebbe portare alla morte in un tempo breve. Ma potrebbe anche guarire e lasciare che la mia vita, lucida e curiosa, si prolunghi per molti anni ancora. Che io tenga a questa seconda ipotesi non c’è bisogno di ribadirlo. E faccio quello che facevo prima: vivo come se dovessi vivere in eterno. Vale a dire che seguo l’opinione che non ho ancora esaurito l’avventura della conoscenza di me stesso, della scoperta dei desideri che ci sono nel profondo di me e che chiedono di essere ancora realizzati.
Il “conosci te stesso” dell’Oracolo di Delfi, tanto caro a Socrate è diventato oggi anche più attuale. Perché, quand’ero un ragazzino, si pensava che ognuno di noi potesse avere una sola vita, essere un solo personaggio, e avrebbe dovuto seguire quella strada fino alla fine. Oggi noi abbiamo il permesso e la possibilità di scoprire che dentro di noi ci sono tante persone e tante vita e che tutte desiderano essere sperimentate. Il “conosci te stesso” è un’avventura interminabile. La morte la troncherà, ma finché si è vivi, anche a quasi ottant’anni, come ho io, c’è curiosità di scoprire, di apprendere, di provare, di vivere più pienamente e più diversamente.
La nostra vita è più lunga (almeno quarant’anni in più rispetto ai nostri predecessori dell’inizio del Novecento), c’è più tempo per vivere più vite. Ma soprattutto oggi la nostra cultura ci dà il permesso di farlo e perfino c’incoraggia.
Io ho già vissuto diverse vite. Le più recenti sono state quelle dell’insegnante di Filosofia nei Licei e quella dell’artista pittore, per semplificare. Ma ho ancora voglia di scoprire e di provare. E mi piace pensare che stia avviando una nuova avventura esistenziale, che nasce proprio da quest’esperienza della malattia. E sono emozionato, fortemente emozionato, dalle possibili scoperte che mi attendono. Sto mettendo in campo tutte le mie risorse mentali ed emotive per navigare in questi nuovi mari. E tutto questo, oggi, mi tiene piuttosto vivo.
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