Lettere da Nosolandia 8
Lettere da Nosolandia 8
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L’ho raccontata altre volte questa storia. Conserva il suo fascino di evento sorprendente. E ora si collega a qualcosa che sto provando nell’esperienza di scrivere di me durante questa malattia.
Era uno dei primi anni della mia avventura d’artista. Avevo un certo numero di quadri nuovi e Leonardo (proprio il Leonardo che con Monica mi ha organizzato la mostra) mi aveva invitato a casa sua, a Ivrea, per mostrare questi lavori a lui e un gruppetto di amici. C’era tra questi lavori il quadro la cui foto posto con questo testo.
A un certo punto della serata, il più giovane del gruppo si alza di scatto, prende un pannello di compensato e copre metà del quadro, lasciando scoperta la parte a sinistra di chi guarda. Domanda se si tratta di un volto maschile o femminile. Tutti concordano che si tratta di una donna. Poi sposta il pannello di compensato fino a coprire la metà sinistra e lasciare in vista la parte destra rispetto a chi guarda. Sorpresa! Il volto ora è chiaramente di un uomo.
Io fui sorpreso più di tutti. La cosa era stata del tutto preterintenzionale.
Però in quel periodo io stavo teorizzando un po’ sul processo creativo che stavo usando. Era un metodo che chiamavo “delle nuvole”. Consisteva nel cominciare a imbrattare la tela con macchie (le nuvole) e andare avanti un po’ a caso, lasciando che capitasse quel che capitava, finché non avessi intravisto indizi di qualche figura riconoscibile e attraente. A quel punto avrei ritagliato con determinazione la figura e l’avrei completata. Poiché usavo colori acrilici, che sono coprenti, tutto si sarebbe messo a posto.
Nel mio linguaggio approssimativo, dicevo che il primo momento (quello delle nuvole) era il momento femminile (si lasciava accadere le cose, senza interventi volontaristici e progettuali), nel secondo momento, quando si prendeva la decisione per una figura determinata e si rinunciava alla molteplicità di altre possibilità, quello era il momento maschile.
La sorpresa di quella sera consisteva nel rendermi conto che il mio quadro, inconsciamente, aveva rappresentato figurativamente la mia teoria.
Questo ricordo mi viene in mente ora perché mi rendo conto che in questa scrittura che accompagna, e forse modella, la mia esperienza di malattia sta avvenendo qualcosa che ancor una volta mette in gioco una dimensione che si svolge su un terreno comune con la sensibilità femminile.
La scrittura di sé è una scrittura introspettiva, ricerca il senso delle cose percorrendo le emozioni e anche i pensieri che affiorano spontaneamente, che vengono suggeriti ad uno sguardo che in maniera accogliente si apre all’ascolto, e lascia accadere quello che accade. E soltanto quando emerge un pensiero identificabile e avvincente, interviene con un atteggiamento diverso, definitorio.
A quel punto sembra che sia io a “decidere” del senso. Ed è vero. Ma di fatto questa decisione si appoggia su qualcosa che si è presentato da sé, qualcosa che è maturato per conto suo. Di nuovo una mente femminile che si sposa con un atteggiamento maschile (se si accetta questa sommaria classificazione).
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Naturalmente il fare le cose, la vita attiva, si guarda bene dal sostare eccessivamente nella riflessione. C’è una saggezza del fare che sa bene che incerti casi a scavarsi dentro si diventa più ciechi e non si combina niente. Passare all’azione è spesso la cosa più saggia. E così farei anch’io (benché ami molto vagabondare con l’immaginazione) se le gambe non me l’impedissero.
Mi accorgo che una parte di me trova vantaggiosa questa situazione che mi fornisce l’alibi perfetto per indugiar nella lettura e nella riflessione. E allora? Sto perdendo tempo?
Negativo. La scrittura in qualche modo è sempre un fare (come la pittura e il disegno). Prendere la penna e vergare sulla carta, o battere alla tastiera del pc, è azione. Quando si scrive si è sicuri che si sta pensando con tutto il corpo. A volte per esserne più sicuro scrivo “ad alta voce”.
Ma c’è una cosa anche più importante che mi sembra di aver scoperto in questo lavoro di narrazione di me che sembra tanto un lavoro introspettivo. E riguarda proprio il rapporto tra il pensare e il vivere.
Quando penso e sono consapevole di quello che vivo, vivo di più. Non tolgo nulla alla vita. Vi aggiungo consapevolezza che la rende ancora più viva.
In secondo luogo – e questo mi fa impazzire! – quando lavoro nell’interiorità io “faccio” anima (senso d’identità, una storia di cui vado fiero, eccitazione e slancio, entusiasmo…) e una volta che si fa anima si porta l’anima nella vita. Voglio dire che fa una differenza.
Fare anima consente di vivere le azioni nel mondo in maniera ispirata, animata. E induce anche a trattare le esperienze nel mondo come elementi dell’anima. Ovvero, come eventi animati. Si prendono gli eventi come messaggi rivolti a noi, incoraggiamenti, avvertenze, messe in guardia, metafore, indicazioni, suggerimenti… Il mondo mostra così quell’incanto che la modernità razionalista (dicono) ha ucciso.
Quindi mi va bene (anche dal punto di vista dell’efficacia dell’azione) che ci sia un tempo per riflettere e un tempo per agire. Un tempo per meditare (subito, al mattino, prima delle cose da fare) e un tempo per fare, animati dalle idee che al mattino hanno nutrito l’anima.
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Sembra una cosa paradossale, ma in questo momento, in questi giorni, sento una sorta di gratitudine per essere in questa condizione di malattia.
Il dolore è sotto controllo grazie a Contramal e Gabapentin; per le piccole esigenze quotidiane (andare in bagno, cucinare, lavarmi i denti, radermi, rigovernare…) con le stampelle, e talvolta senza, riesco ad avere una mobilità sufficiente; la malattia mi esime da compiti che inducano traffici faticosi con il mondo esterno. Per il resto, ho tante ore meravigliose da dedicare alla lettura, alla scrittura, alla riflessione, alla comunicazione con gli amici, tramite i social su temi che m’interessano davvero tanto, o tramite il telefono. Occasionalmente (come per l’inaugurazione della mia mostra che gli amici hanno preparato tutta loro) ho anche qualche selezionata uscita mondana. Ho in magazzino alcune centinaia di quadri fatti in passato che possono fornire materiale sufficiente per la mia vita da pittore, consentendomi di attendere che questo forzato anno sabbatico finisca. Inoltre ho trovato un filone molto interessante per il mio desiderio di lavorare alla scrittura…
Dovrei lagnarmi forse perché ho temporaneamente perso l’uso delle gambe?
Dovrei piangere la mia situazione di disabile?
Ma non mi passa neanche per la testa.
Capirei perfino chi provasse un po’ d’invidia per la mia condizione.
La mia vocazione filosofica può riaffiorare vivacemente, non dovendo più fare i conti con i tanti impegni pratici. Essa guarda alla mia agenda vuota (tranne gli appuntamenti medici e ospedalieri) con una soddisfazione non celata. È sempre stato il mio sogno: non avere niente “da fare”, per poter fare tutto quello che mi pare.
E io adoro quest’indagine riflessa su di me, per il desiderio e la speranza fiduciosa che essa mi consenta di allargare la mia sensibilità e di spingermi verso quell’Altrove e quell’Altrimenti che hanno sempre costituito l’orizzonte del mio cammino.
Quest’indagine, che ha il solo vincolo della sincerità, mi scopre sempre più privo di certezze assolute, pieno di meravigliose perplessità e di una forma pacificata d’ignoranza, che invece di rendermi deluso, apre uno spazio immenso al possibile. È lo spazio della ricerca, dei tentativi, delle invenzioni, dell’avventura.
Così la mia vita mi appare colorata e gratificante. Il viaggio è un vero viaggio avventuroso d’esplorazione. E ditemi voi se c’è qualcosa di più eccitante.
Categorie: Eugenio Guarini