Categoria : Eugenio Guarini
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Lettere da Nosolandia 9
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Scrivo di me, narro e sento che sono vivo, che sono presente. Godo anche di quella certa euforia che la scrittura produce. Ma se dicessi che ho capito chi sono davvero, ingannerei me stesso e il lettore. Intravedo che questa narrazione potrebbe durare all’infinito e mai mi mostrerebbe pienamente chi sono. Ho la netta sensazione, anzi, che io non sono ma sto divenendo. E se cerco una realtà finita e definita non la troverò. Ne concludo che il proprio sé bisogna inventarselo lungo un viaggio. E qui entra in gioco l’arte.
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È pigrizia mentale quella a cui indulgo quando faccio il filosofo saggio. È una caduta in poltrona. Va bene un po’ di stanchezza la sera. Ma la mattina non me lo voglio permettere. Voglio saltellare almeno col pensiero visto che le gambe m’ignorano, al momento. Quando ho deciso di darmi alla vita d’artista (senza impegnarmi troppo nella definizione di cosa volesse dire) questa faccenda era una delle cose più chiare. La vita d’artista doveva essere vivace, brillante, gioiosa, folle, saltellante, guizzante, colorata, esplosiva possibilmente. A livello quotidiano, dico. A me del mondo dei VIP proprio un baffo! Io non ho niente contro la quotidianità. Al contrario, penso che sia la dimensione giusta per me. Mi rifiuto però di pensare che il quotidiano debba essere grigiore e piattezza. Il quotidiano è argilla da modellare. Il soffio vitale viene dalle mie mani e dalla mia testa. Ci vuole energia per questo. Ed energia buona, ecologica, perché duri. E io all’energia ci penso, la curo tutti i giorni. Faccio quel che può fare un cuore in materia d’energia, butto passione e amore sviscerato.
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Le gambe vanno meglio. Forse è minimo il miglioramento, ma io l’avverto. E lo prendo come un segnale promettente.
Ora scendo dal letto con maggiore “agilità”. Il fisiatra mi ha insegnato a spostare ben in avanti il peso del torso, in maniera che il baricentro cada dentro la base. E quando sento che le gambe tengono, alzo il tronco e mi ritrovo più stabile. Mi sorprendo nel constatare come siano migliorate le cose. Solo due settimane fa dovevo afferrare la testiera e fare uno sforzo incredibile per tirarmi su.
Certo, sedere su una sedia è ancora “caderci” sopra. Alzarmi da una sedia senza braccioli, te lo sogni. Ma, trovando appoggi, al tavolino e al tavolo di cottura, risulta abbastanza agevole.
Anche a “camminare” mi sento meno incerto. Ho meno paura di crollare a terra senza preavviso. Procuro tuttavia di essere presente ad ogni passo, mi si forma il film in testa un attimo prima di eseguirlo.
Non cado da un varie settimane. È un record. Il ricordo dell’ultima caduta (la più brutta, nel bagno) sta allontanandosi ai margini dell’emotività. Oltre al dolore al costato, il problema era come alzarsi da terra. Mi ero trascinato strusciando come un rettile fino ai bordi del letto, per mettermi in ginocchio e rovesciarmi di pancia sul materasso. Da dove ero riuscito a spostarmi verso la testiera, grazie ad alcune operazioni rocambolesche.
Vedo la neve dalle finestre e vengo a sapere del freddo dai visitatori. Claudia mi manda la foto della fontana d’Ivrea colante di ghiaccioli. Mia figlia, della campagna di Moncucco, ricoperta dalla neve. Mi sento perfino protetto dovendo stare al chiuso.
A pranzo mi faccio una pasta asciutta con un sugo di verdura (carciofo, broccoli…) con l’aglio, peperoncino e un ciuffo di prezzemolo. Un bicchiere di vino non manca mai. Per quel che brucio di calorie è più che sufficiente. La mattina e la sera ormai il rito è una tazza di orzo con biscotti. Mia figlia Chiara mi ha avvisato per telefono che mi porterà un pezzo del pane che fa lei e anche un’altra stuzzicante pietanza a base di peperoni e acciughe. Benché mangi meno, l’appetito non mi manca.
Muovendomi lentamente per l’alloggio mi accorgo delle ragnatele costruite da insospettati coinquilini, approfittando della mia incuria. Sì, non sono solo, anche quando sono solo…
Ho una brocca d’acqua a portata di mano, sul tavolo di lavoro, per le due piante che accompagnano le attrezzature elettroniche. Sì, io voglio le piante vicino al computer. Il verde guizzante delle loro foglie mi ricorda che siamo biologia intelligente e sensibile.
Un altro segnale di miglioramento risiede in quell’irrequietezza che non mi lascia star seduto pacificamente sulla poltrona. È la voglia di andare, di fare con tutto me stesso.
Per l’inaugurazione della mia mostra Patrizia (la gentile estetista che è venuta a farmi la pedicure) mi ha prestato una carrozzella e mio figlio Jacopo mi ha fatto da chauffeur. È stata la mia prima uscita. Eccitazione.
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La fiducia negli esiti positivi delle proprie azioni si rafforza certamente quando si verificano dei successi, ma la sua origine è endogena, dipende da una presa di posizione interiore e a priori. Deve essere così. Credo che questo valga per la malattia come per il miglioramento del mondo! Le persone di buona volontà che decidono di impegnarsi per il miglioramento del mondo devono necessariamente partire dalla fiducia a priori che questo sia possibile, che la loro azione abbia esiti efficaci. E devono essere così fiduciosi che anche gli insuccessi non li scoraggino. Finché si può reggere.
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Io voglio vivere la via dell’artista. Mi sento portato per il disegno e la pittura, per il pensar e la scrittura, e per la musica (la meno curata, finora, delle mie passioni). Voglio diventare capace di regalare al mondo delle belle cose in questi campi. Mi ci lavoro con passione. E anche senza perfezionismi, perché bloccano. Sono pronto a fare errori, perché voglio imparare. Di fronte a questo disegno più grande che dà significato alla mia vita in movimento, alla mia avventura, la malattia è un passaggio. La guarigione è un passaggio e un’occasione. Non mi piace la teoria che invoca a priori la sofferenza per raggiungere una crescita migliore. Sostengo che si possa raggiungere una crescita fantastica anche lungo un viaggio tutto segnato dalla gioia. Ma, a posteriori, se la sofferenza e la disabilità sopraggiungono, allora penso si debba farne un’occasione di crescita. E vedo che per me sta avvenendo proprio così. Mi si aprono scenari che prima non potevo sospettare. E so di avere tutto il tempo necessario per portare il mio vascello fino in porto.
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Quando stavo bene, ero vivo e sveglio, potevo sentire dentro di me un flusso vivace scorrere e premere. Una spinta eccitata e fiduciosa a creare un senso personale alla mia esistenza. In parole lo tradurrei così: “Vedi com’è bello? Datti da fare! Inventati qualcosa che dia valore alla tua vita! Soddisfa questa sete.”
L’arrivo della malattia ha interrotto questo processo. La mia capacità di dare un senso gratificante alla mia giornata era morta. E mi sono rannicchiato. Soprattutto nella fase in cui il dolore era acuto. Rannicchiato e isolato. La vita non era più il terreno del gioco creativo. Era intrusiva e lesiva.
Solo quando la mia dottoressa di base si è precipitata in casa mia con l’iniezione di Toradol e le gocce di Contramal, ho ricominciato a respirare. Ho benedetto i progressi della medicina nel campo della Terapia del Dolore. Non sentir male è già gioia.
E poi, toccava a me utilizzare bene gli spazzi d’iniziativa che l’assenza di dolore mi faceva ritrovare. Capivo che non era sufficiente controllare il dolore con gli oppiacei. Bisognava nutrire la vitalità personale per alzare la guardia. Lo vedo chiaro il principio: bisogna collaborare con i farmaci nutrendo un atteggiamento positivo, fiducioso, creativo, per alimentare il processo di guarigione.
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Sì. Lo faccio volentieri. Mi aiuta a tenere acceso il fuoco, la speranza, il senso di essere vivo. Parlo della scrittura di me e di questa esistenza che scorre nel paese della malattia (Nosolandia).
Ma non ho detto ancora di quelle persone che qui mi hanno condotto. Anche loro fanno parte della storia. Anzi, ne sono parte importante. Ho bisogno di dire di alcune di loro, che sono come le radici dell’albero.
La prima a parlarmi di queste cose è stata C (infermiera in ospedale). La sua sensibilità umanistica mi è nota da tempo, perché da tempo siamo amici. È lei che ha voluto una mostra di miei quadri nel reparto. “Questo è un luogo dove si viene alla vita”, mi disse, “Deve essere accogliente!”. L’idea mi sembrò semplicemente meravigliosa. Andava molto al di là della cura medica usuale. Ho scoperto personalmente, durante la degenza in Oncologia, quanto un ambiente arioso, colorato, gradevole, fosse importante. Insieme alla gentilezza e il fare sereno del personale. Se si tenesse in considerazione quanto l’ambiente influenzi sulla cura, forse sarebbe un passo avanti importante per la medicina pubblica.
Quando incominciai la chemioterapia, nell’aprile scorso, durante una seduta in Ematologia, l’infermiere Alessandro mi buttò lì l’informazione. Non so neanche perché proprio a me. Avrà capito che mi piaceva parlare e raccontare… “Se t’interessa”, mi disse mentre sistemava i flaconi della flebo, “c’è il Dr Tal dei Tali che è il referente di una cosa che si chiama Medicina Narrativa”. Il nome del referente non lo afferrai o comunque l’ho dimenticato subito, però questa parola strana, Medicina Narrativa, m’incuriosì.
C, saputo della mia degenza, mi venne diverse volte a trovare e io le chiesi informazioni, sapendo che lei prendeva parecchie iniziative, anche fuori dell’Ospedale. Fu lei che mi parlò degli incontri animati da Duccio Demetrio, cui partecipava; dei convegni di Bioetica organizzati in zona, degli eventi di Mindfullness che frequentava con interesse.
E io ero curioso. Mi facevo raccontare cosa facessero, e come. C’era tutto un mondo di formazione al di fuori dell’ospedale rivolto al personale ospedaliero che certamente doveva giovare al modo in cui esercitavano il loro compito e introduceva elementi umanistici della loro preparazione.
C è stata decisiva a introdurmi in questa geografia di attività umanistiche intenzionate a integrare l’esperienza della cura e della malattia. E ancora adesso è lei che m’informa di ciò che succede attorno all’Ospedale. Questo mi dice che la mia iniziativa di scrivere e di rendere pubblica la mia narrazione non è un rivolo isolato. Entra, e desidera farlo, in un processo più vasto e già in azione.
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