Categoria : Eugenio Guarini
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Lettere da Nosolandia 7
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Mi sveglio per fare la pipì.
Cerco di sentire le gambe dall’interno, passo dopo passo, per averne il controllo.
Camminare subito dopo il sonno, con la mente ancora intorpidita, può essere molto pericoloso. Lo so per esperienza. La peggiore delle mie cadute in casa è avvenuta in quelle condizioni di torpore, nella stanza più pericolosa per cadere: il bagno. Ne porto ancora il ricordo nel dolore al costato sul fianco destro.
L’ispessimento della prostata mi obbliga a compiere questa operazione almeno tre volte per notte. Sono i momenti più pericolosi della giornata.
Ad ogni buon conto ho imparato un po’ per volta a essere guardingo con una serie di accorgimenti: stare un po’ seduto sul bordo del letto prima di affrontare l’alzata; sollevarsi aggrappandosi con la sinistra alla testiera del letto e facendo leva con la destra sul letto stesso (l’operazione prevede un minimo di scatto in alto facendo leva sull’elasticità del materasso); trovata l’inclinazione giusta affinché il baricentro cada nell’area di base del corpo, sollevarsi completamente in maniera da far leva sulle ossa delle gambe come trampoli o stampelle; a questo punto iniziare la deambulazione lentamente, cercando di non perdere l’equilibrio e ascoltando attentamente la dinamica delle gambe dall’interno; raggiungere le stampelle cautamente nel luogo dove furono abbandonate in precedenza; con questa attrezzatura raggiungere la meta, senza strafare e valutando ogni passo, uno dopo l’altro.
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Questa mattina, al termine dell’operazione su riferita, si è presentata alla mia attenzione la faccenda dei piedi. I piedi sono la periferia del corpo che con l’età diventa sempre più lontana dal centro. Era già da diversi anni che raggiungerli con le mani per infilarsi le calze, lavarli, e soprattutto tagliare le unghie, era diventata un’operazione difficile e faticosa. Ora, con questa malattia che ha reso i muscoli delle gambe degli elastici slabbrati e ammosciati, due di queste operazioni sono diventate impossibili: lavarli e tagliarsi le unghie. Se si pensa che da diversi mesi i piedi sono rimasti ignorati per via di preoccupazioni più urgenti all’ordine del giorno, è facile immaginare che lo stato della loro igiene darebbe l’immagine di certe periferie degradate, composte da quartieri spopolati per la crisi della fabbrica locale.
Si rende necessario il ricorso all’aiuto esterno. Bisogna che mi decida a prendere accordi con l’estetista di mia figlia, che abita in paese, e che fa anche un ottimo lavoro di pedicure.
È una giovane donna dolce e graziosa, molto gentile e garbata, che ispira tutta la mia fiducia. Cercherò di convincerla a venirmi a fare l’operazione a domicilio. Certamente non sono l’unico a richiedere un servizio del genere. Mi vergogno un po’ a mostrarle i miei piedi nello stato in cui sono per quel pudore che ognuno potrà facilmente perdonare. Ma devo superare gli scrupoli. La cercherò oggi stesso.
E, visto che i problemi non vengono mai soli, credo che dovrò organizzare una visita domiciliare anche del mio parrucchiere. Le lunghe degenze, la permanenza prolungata della testa sul cuscino, dona alla capigliatura del malato delle forge surrealistiche che potrebbero fare la concorrenza a certe audaci acconciature punk.
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Nuccio Demetrio dei doni dell’autobiografia è un predicator instancabile.
Ha fondato per questo la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (AR).
In una bella conferenza in cui parla delle narrazioni dello shoah (https://www.youtube.com/watch?v=lLOcKlPw__c ) riassume gli effetti della narrazione in tre punti: uno, le narrazioni lasciano traccia della propria vita, salvandola dalla caduta nell’oblio. Due, regalano benessere attraverso la scrittura, e in questo senso possono essere terapeutiche. Tre, offrono stimoli che arricchiscono la nostra mente e la nostra vita, rimettono in moto il pensiero, consentono di conoscersi meglio, accendono la curiosità di occuparsi delle storie degli altri.
Quest’analisi sembra collimare esattamente con l’esperienza che vado facendo. La mia malattia non è neanche lontanamente paragonabile alle condizioni dei campi di concentramento nazisti. In qualche modo, però, le caratteristiche elencate da Demetrio sembrano corrispondere a bisogni e desideri che essa manifesta.
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Nella mia testa sta prendendo forma una sorta di abbozzo di teoria che sembra sostenere e indirizzare la pratica della narrazione di sé quando si è malati (ma anche quando, da sani, si avverte quella sorta d’inquietudine che ci accompagna sempre).
Questa teoria approssimativa si costruisce attorno all’assunto che il bisogno fondamentale dell’uomo sia “il bisogno di senso”.
Che quando il senso di ciò che viviamo personalmente non è abbastanza curato, ricercato e deciso, noi entriamo in una sorta di malattia che crea disagio, caduta della vitalità, persino depressione.
Da questo assunto scaturisce il compito di curare e di mantenere vivo nella coscienza il senso di ciò che viviamo e di ciò che facciamo. Che ci occupiamo attivamente di questo.
Se l’operazione riesce, la vitalità riprende a scorrere e l’esistenza si riempie di compiti che l’arricchiscono.
Se queste considerazioni sono almeno un po’ plausibili, la narrazione di noi stessi, attraverso la scrittura (senza alcuna pretesa letteraria, ma esclusivamente in funzione esistenziale) mi appare una via maestra per dedicarsi alla scoperta e alla decisione del senso della nostra vita individuale, concreta, particolare.
Sarebbe veramente meraviglioso se io potessi dare all’esperienza di questa malattia un senso personale che la inserisce come un momento vivo, importante, ricco e stimolante, nel contesto di tutta la mia storia personale, facendone scaturire compiti e obiettivi per il mio futuro.
E mi sembra di intuire che questo, un po’ per volta, è proprio quello che sta avvenendo. Allora, io credo, che il dolore, il disagio, i limiti, che questa malattia di fatto e concretamente è per me verrebbero pienamente riscattati.
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È notte. Le mie abitudini sono cambiate con la malattia e la lunga degenza a letto. Prima (i miei amici lo sanno) dormivo di filata le mie sei ore, più o meno dalle undici di sera alle cinque del mattino. Passavo una giornata molto operativa tra pittura, disegno, lettura, scrittura ed esercizi alla tastiera musicale, oltre che la spesa, cucinare, la pulizia dell’appartamento, la comunicazione… Il pranzo era tra le undici e mezzogiorno. La cena verso le sette. Una tranquilla pennichella dopo pranzo. Dicevo agli amici: ci sono gli uomini “civetta” che sono più svegli la sera e la notte e poi ci sono gli uomini “allodola”, che sono più efficienti al mattino: io sono tra questi.
Ora dormo a tratti di due ore circa lungo l’arco delle ventiquattro ore, intervallati da ore di veglia, nelle quali la maggiore occupazione è leggere, scrivere e comunicare con gli amici di Facebook. La spesa me la fa mio figlio Jacopo. Io cucino qualcosa, mangio, rigoverno. Poi arriva la sonnolenza che mi riporta a letto. Dopo pranzo e dopo cena. Dopo cena posso dormire dalle otto e mezzo fino a mezzanotte. Poi mi sveglio e comincio a trafficare tra lettura, scrittura e condivisione su Facebook.
Paradossalmente, da allodola sono diventato civetta. Mi sento piuttosto sveglio. Ho ascoltato ancora una conferenza di Duccio Demetrio sulla narrazione autobiografica, ho preso degli appunti, ho elaborato, nel mio Diario di Bordo, dei pensieri che mi hanno colpito e che sono diventati cibo per la mente e l’animo. Ne assaporo il gusto mentre scrivo alla tastiera del mio I Mac.
Avverto l’effetto piacevole e vitale che essi producono sul mio corpo e il mio sentire. Avverto che mi stanno preparando a una nuova appassionante avventura, che già, in qualche modo, si è innescata. So che sto abbozzando (vorrei dire: disegnando) una sorta di progetto per il mio futuro. Senza fretta. Lasciandomi guidare dall’esperienza che, anche da malato, mi è dato di fare.
Questa capacità che ha la scrittura di occupare il mio tempo di malato, questa magia nel dare contorni più chiari ai miei pensieri, al mio desiderio, questo viaggio introspettivo pacato e emozionante, è come se dischiudesse via via un altro mondo, allettante. È come se la scrittura rivelasse un potere incredibile e allettante di inventare gioiosamente la mia vita. Mi promette, la scrittura, di essere in grado di realizzare quella interazione felice tra me e la realtà, che il mondo là fuori continua a negare.
È come essermi imbarcato su un meraviglioso vascello per i Mari del Sud, alla ricerca dell’Isola del Tesoro.
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La scrittura di sé è espressione della fierezza di essere un io. C’è voluta una lunghissima evoluzione perché questo fosse possibile, che un individuo si staccasse dal branco, e anche dalla famiglia, e sentisse di avere il diritto a una sua indipendenza e scoprisse una sua solitudine non amara. Non rinuncerei mai al mio “io”. E anche se mi affascina, a volte, sostare in quel sentimento panico che si presenta davanti a certi spettacoli della natura, in cui “naufragar m’è dolce in questo mare”, voglio conservare, nel raccontarlo, la piena consapevolezza di essere un “io”. È bello perdersi per un po’ nella fusione amorosa, ma è l’io che la rivive nel ricordo con maggiore lucidità e consapevolezza.
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