Categoria : Eugenio Guarini
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Lettere da Nosolandia 5
(Nosos, in greco: Malattia. Da cui Nosolandia: la Terra della Malattia)
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In queste malattie, dato che segretamente si sa che potrebbero essere un viaggio verso la morte, si raggiunge più facilmente una determinazione della volontà che nello stato di salute spesso stentiamo ad ottenere. Si può essere arrivati alla fine. Mi scoccia dirmelo, ma lo devo accettare. Mi affido tuttavia totalmente a quell’istinto di vita che sento forte e vivace dentro. E ne nasce una determinazione a tagliare corto con i fronzoli, a individuare con maggior chiarezza ciò che vale per me, ciò che vorrei lasciare dietro di me quando me ne andrò, a usare del tempo che mi rimane senza andare ad economia, a gettarmi a corpo morto in ciò che dà valore alla mia storia.
Tale determinazione vorremmo averla avuta anche prima e giuriamo di mantenerla anche dopo, quando e se avremo recuperato le energie. È un regalo che voglio apprezzare. Mi spinge a vivere davvero, a vivere sapendolo, volendolo, amandolo. Finché ho tempo.
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Quando si parla della nostra malattia vorrei che si facesse uno sforzo per usare frasi rapide, lucide ed empatiche, come se i dati fossero neutri, ma rischiassero di diventare tristi se uno ci si sofferma troppo a lungo.
I fatti, le cose, sono di per sé privi di slancio. In altri tempi e per certe discipline, quell’oggettività era un valore da rispettare ad ogni costo. Certi medici ti danno ancora quell’impressione.
Niente emozioni, si dice. Quasi che il soggetto inquini la verità. Ma che verità è quella senza sapore, senza gusto, eccitazione, attrazione, emozione? Il mondo soggettivo è forse il territorio della favola, della superstizione, dell’inganno? Per non illudersi si preferisce morire d’inedia, perdere l’appetito, inibire il sentimento? Ma questo non è forse un anticipare la morte? Non ti sembra che sia un’operazione suicida?
Allora non è melio gettarsi nella festa, danzare con i desideri, giocare d’immaginazione, scommettere e osare? Può essere che il trucco sia proprio quello. Quindi, è meglio che ci affidiamo al sogno, alla speranza, alla preghiera fiduciosa, e lasciare entrare l’eccitazione nelle parole che si scelgono.
E saltare via.
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I libri sono uno splendido sostituto delle conversazioni, bisogna ammetterlo. Forse non vorremmo frequentare troppo a lungo i loro autori, perché li troviamo impegnativi.
Ma il libro ce li offre senza costringerci alla loro presenza.
Quelle persone che genericamente sono definite ”introverse” preferiscono mille volte restare a casa a leggere un buon libro che partecipare alla festa del quartiere.
Generalmente, nella scuola, in azienda e in società, gli estroversi hanno una quotazione migliore, ma io scommetto che la vita degli introversi è più ricca a livello interiore (ma solo perché io sono un solitario – che però sta bene in compagnia).
In fondo, credo che uno dei motivi per cui i social e le mail hanno un così grande successo risiede proprio nel fatto che comunicano pensieri (quando li comunicano) senza che gli autori impongano la loro presenza – e sono disposti ad aspettare che l’interlocutore abbia voglia di rispondere.
Naturalmente questo vantaggio dovrebbe essere sfruttato impegnandosi a scrivere cose interessanti, o almeno gradevoli.
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Henry Ford sosteneva che due uomini entrano sempre in confidenza se devono percorrere insieme una distanza superiore a sessanta chilometri.
All’ospedale è la stessa cosa. Se sei con altri due letti nella stessa stanza per più di tre giorni, entri sicuramente in confidenza con i pazienti e con ogni membro della loro famiglia e della cerchia di amici che li venga a trovare.
È possibile che un fenomeno analogo accada anche su Facebook se per più di tre giorni ci si confida il proprio stato di malattia e le emozioni con cui lo stiamo vivendo. È come entrare in una camera d’ospedale virtuale: dopo un po’ ci si racconta tutta la vita.
E non sembra affatto una cosa banale.
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Ho cercato di capire meglio cosa funziona, almeno per me, rispetto al compito di tenere alto il morale, di coltivare la fiducia nella guarigione.
Certo coltivare attivamente i propri interessi, utilizzando le energie e il tempo che si riesce a trovare. Esprimere se stessi fa sempre molto bene. Come pittore conosco bene questo effetto.
Ma c’è, in fondo a tutto ciò, qualcosa di più, credo. E succede quando hai la sensazione di fare qualcosa per gli altri. Non dico nella maniera insistente di chi ti vuole amare più di quanto tu possa sopportare. In una maniera più semplice e naturale, che consiste nel vedere che quel che fai per te fa bene anche ad altri. E allora lo fai più volentieri. O qualcosa del genere. Non so come dirlo, perché vorrei evitare di cadere in qualche forma stantia di buonismo. Non si tratta dell’intenzione d’impegnarsi per gli altri, ma di essere per gli altri nello stesso movimento in cui si è per sé.
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Notizie dal fronte.
Oggi visita in Ematologia a Ivrea. La dottoressa che mi segue mi ha detto che hanno deciso di lasciarmi due o tre mesi senza iniziare nuove forme di chemioterapia. La speranza è che il problema delle gambe si risolva, o mostri miglioramenti. Ne sono felice, perché l’idea di riprendere il ritmo delle flebo m’inquietava un po’. Farò i controlli, gli esami e le visite, e stiamo a vedere come evolve la situazione. Mi sembra di aver ricevuto in regalo una vacanza. Cercherò di comportarmi bene.
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In ospedale ho visto malati che soffrivano molto più di me. Io stesso ho vissuto settimane di dolore acuto, di quello che devi sopportare minuto per minuto perché non ti dà quiete, non ti lascia dormire…
Ci sono situazioni, periodi, in cui la capacità di fare qualcosa di più che sopportare, sopravvivere, rintanato e avvolto nel tuo stesso dolore, è nulla. Si attende che passi, per nulla sicuri che passerà.
Io provavo a concentrarmi sul respiro, per distrarmi dal dolore. Un po’ mi aiutava. Ma era veramente poco.
Lì il tuo io si riduce a un puntino dolorante. Tutto il mondo non è che quel puntino dolorante.
Ma ora non è così. Ora lo spazio, il tempo, la quantità di energia disponibile è aumentata. Anche se non è neanche lontanamente come ero prima della malattia, ora c’è qualcosa, uno spazio, un maggior potere. Ora non c’è niente che mi esima dal spingermi un po’ oltre i limiti. E so che lo devo fare. So che lo voglio fare.
Non sono per nulla un eroe titanico. Sono piuttosto debole, pauroso e mansueto. Non sono quel guerriero combattente che alcuni mi attribuiscono. Ma so che posso ugualmente lavorare con intensità a migliorare le cose. Soprattutto per quel che riguarda l’atteggiamento interiore.
So che ho da fare degli esercizi, graduali, alle mie gambe di piombo, per recuperare un po’ di tono muscolare.
Quando cammino, in casa, con le stampelle, ad ogni passo, sullo schermo della mente, compare la scena di me che crollo a terra e mi rompo qualcosa. So che devo liberarmi di quell’immagine, sostituirla con una più rassicurante, restando al contempo attento e vigile, consapevole ad ogni passo.
Mi hanno dato due o tre mesi di pausa dalla chemioterapia, bene! Userò questo tempo al meglio. Voglio scoprire cosa di altro e di nuovo posso fare per realizzare questa intenzione. La mia mente, che per fortuna può muoversi anche senza le gambe, è protesa a questo.
È, ora, qui, la mia vera impresa, la mia avventura. Presa così acquista un senso, per me.
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Mi è piaciuta l’esperienza di questi giorni. Leggere qui su Facebook scorci di vita personale che hanno consentito di conoscere meglio amici, la cui presenza virtuale è pressoché quotidiana. Ho provato il desiderio che questa esperienza, nata dal terreno della malattia e della sofferenza, sappia trovare il modo di continuare, anche oltre questa tematica. In questo modo informale e gentile, che è così piacevole e che invita ad avvicinarsi con empatia. Per quel che mi riguarda, vorrei impegnarmi seriamente a parlare solo di cose che suppongo meritino di essere ascoltate e, in secondo luogo, a non richiedere al lettore una quantità di fatica sproporzionata rispetto alla soddisfazione che potrebbe trarne.
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Lo confesso, fino a non molto tempo fa, la mia testa è stata quasi sempre sul presente e sulla progettazione del futuro. La memoria m’interessava poco, la curavo marginalmente. E mi sentivo più giovane per questo. C’era il fascino dell’azione. Non c’era tempo e voglia per le memorie.
Ma durante la degenza in ospedale, dopo una decina di giorni circa, mi sono accorto che un processo di entropia spontanea mi stava facendo dimenticare chi ero. Diventavo sempre più il paziente passivo, che passava le ore sul letto, cui gli infermieri somministravano i farmaci all’ora stabilita, le operatrici sociali rifacevano il letto, portavano da mangiare. Visitato regolarmente dai dottori, che decidevano le prossime mosse, guardando i risultati degli esami. Solo questo.
È stato allora che ho sentito forte il bisogno di ritrovarmi, di ricordare chi ero, di ricordare chi sono, ricorrendo alla memoria. È stato allora che mi sono reso conto di quanto le cose del passato rischino di essere risucchiate nell’oblio. E della necessità di riconquistare il ricordo di ciò che sono stato, di ciò che ho fatto, di ciò che è successo, per ritrovare la mia identità.
Gli altri che ti visitano, che ti parlano, possono continuare a pensare che tu sei quello che ha insegnato filosofia nel liceo, quello che si è deciso per la vita di artista vent’anni fa, quello così e così…
Loro magari non si accorgono, che dietro la buccia che osservano, l’io sta evaporando, risucchiato nella dimenticanza. Non appena me ne sono accorto, ho reagito, mi sono ribellato. E a questo punto ho capito che il pensiero autobiografico, anche nella forma della scrittura, sarebbe stata la mia arma più efficace.
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