Lettere da Nosolandia 1
Lettere da Nosolandia
(Nosos, in greco: Malattia. Da cui Nosolandia: la Terra della Malattia)
Sono stato ricoverato in Ospedale, a Ivrea. Le gambe non funzionano. Probabilmente è l’effetto secondario della lunga chemioterapia per debellare un linfoma.
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Qui ci si rende conto che siamo fragili e che lo siamo anche quando stiamo bene e ci sentiamo leoni. E qui comprendiamo meglio che piccole cose, una parola, un gesto, una gentilezza, qui, nel luogo della malattia e del dolore, hanno un grande valore. E credo che questo lo porterò con me, una volta guarito.
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Col tempo, e le varie vicende occorse, la direzione di marcia contenuta nel nucleo desiderante di me stesso sembra chiarirsi e semplificarsi.
So che ho sempre desiderato buona salute, tanta energia e un atteggiamento positivo nei confronti della vita.
Una casa atelier che ispiri e agevoli creatività di pensiero e di azione.
Libri e suggestioni che abbiano questa funzione.
Relazioni che nutrano un approccio gioiosamente operoso all’esistenza.
Nell’insieme credo di aver avuto fortuna fino a questo momento.
Il tempo, e le vicende, mi hanno anche aiutato a conoscermi meglio.
Ho capito ciò che non sono tagliato a fare.
Nel tempo ho imparato a dedicarmi a ciò che amo fare e che mi riesce bene, accettando i miei limiti per tutto il resto.
Per esempio, ho imparato che non sono un eroe titanico, un grande guerriero, un lottatore contro le ingiustizie della società e i mali del mondo.
Sono piuttosto mansueto e cerco di sfuggire agli scontri diretti.
Aggiro gli ostacoli nella misura del possibile e impegno le mie energie, quali che siano, nelle cose che amo fare e nel modo in cui amo farle.
Benché abbia fatto l’insegnante di Filosofia nei Licei non sono e non voglio essere un guru che si propone di insegnare a vivere al prossimo. Preferisco pensarmi come uno che vuole imparare ogni giorno qualcosa che renda la qualità della vita migliore.
Mi piace immaginare la mia esistenza come un’avventura di ricerca e scoperta. E vorrei riuscire a vedere l’incanto della vita e farlo apparire con il disegno, la pittura e la parola. Mi piacerebbe che ciò che esce dalle mie mani fosse cibo per coloro che desiderano una vita operosa e costruttiva e che hanno il coraggio di perseguire la gioia di vivere.
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La degenza in ospedale mi suggerisce qualche riflessione relativa alla parziale perdita di identità del paziente.
Il degente per un periodo abbastanza lungo (una settimana e più per esempio) vive in pigiama per tutto il tempo, è passivo rispetto ai pasti e ai loro orari, passivo nei confronti della somministrazione dei farmaci e degli esami (non prende quasi più decisioni autonome negli atti della sua vita), rimane in ambienti privi dei segni della sua professione e dei suoi interessi…
Me ne sono accorto su di me.
Tutto questo tende a far dimenticare chi si è, induce a una sorta di regressione, soprattutto se c’è dolore.
Capisco che l’essermi portato dei libri da leggere, il continuare in qualche modo a disegnare, a intrattenere la comunicazione sui social, l’essermi portato il taccuino per scrivere i pensieri, non è solo per passare il tempo: è per ricordarmi chi sono, per difendermi dalla pressione di un ambiente diverso sul senso della mia identità. Però il fattore più importante, per me, per la difesa della mia identità è il ricordo reiterato della mia storia d’artista e la presenza coltivata e ribadita del sogno che mi abita.
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In ospedale, a Ivrea, si finisce per incontrare un sacco di persone con cui si è avuto a che fare. E ci si racconta reciprocamente un pezzo di vita.
Si scopre quanto aiuti essere su un social come Facebook, in una rete di amicizia, che in momenti come questo si rende presente con particolare calore. E si ha più tempo da dedicare a messaggi un po’ più accurati dei semplici “mi piace”.
Nascono nuove amicizie con pazienti e personale ospedaliero. Ho promesso alla mia vicina di Fontanemore di andarla a trovare quest’estate, dopo aver conosciuto tutti i familiari. Una Oss mi ha commissionato un ritratto del figlio tredicenne.
Con alcuni operatori, a vario titolo, sono stato introdotto alla cosiddetta “medicina narrativa”, che mi ha immediatamente incuriosito.
Con il diacono Marco Florio abbiamo riflettuto sul suo sogno di coinvolgere i giovani di Caravino in un progetto di valorizzazione del territorio.
Insomma, non è che la vita normale venga del tutto bloccata da una degenza in ospedale. Naturalmente non vedo l’ora di ritornare a casa!
Categorie: Eugenio Guarini