Categoria : Eugenio Guarini
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Lettere da Nosolandia 3
(Nosos, in greco: Malattia. Da cui Nosolandia: la Terra della Malattia
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Si chiama Felice. Anche se, quando l’ho conosciuto, un momento felice non lo era davvero. Eravamo vicini di letto nella camera d’ospedale nel reparto di neurologia.
Ho già raccontato di lui perché ero rimasto sorpreso da quello che era accaduto quando ero riuscito a “distrarlo” dai suoi continui e rumorosi lamenti, facendogli raccontare spezzoni della sua biografia.
Dicevo, allora, che questo lo aveva “distratto” dal dolore.
Ma sono stato superficiale. Riflettendoci ancora ho capito che la parola “distrazione” non rende conto adeguatamente di quello che era successo. Ora l’ho capito meglio e lo voglio condividere.
Le cose che raccontava – mi hanno riferito i famigliari – erano cose che Felice aveva già raccontato mille volte. Erano quei ricordi del proprio passato che col tempo assumono i caratteri della leggenda. Era la sua vita in tutta la fierezza di chi vi vedeva il senso e il valore. Quel piccolo scatto magico che ero riuscito a provocare, chiedendogli del suo passato, gli aveva fatto ritrovare la bellezza, il senso e la dignità della sua storia personale.
Non l’aveva semplicemente “distratto” dal dolore, come avrebbe potuto fare la visione di un film. Lo aveva liberato, sia pure per breve tempo, dalla tirannica prigione dove era diventato soltanto il suo corpo dolorante, riconducendolo ad una percezione più ampia della propria identità.
Sono convinto che chi racconta la propria biografia, o chi decide di scriverla, è animato da un profondo amore di sé. E sono convinto che il pensiero e la narrazione autobiografici possano sviluppare un potere terapeutico che va molto oltre la relativizzazione temporanea del dolore.
Credo che questo faccia parte di ciò che viene chiamato “Medicina Narrativa”. E penso che valga anche per chi non si trova nella condizione della malattia del corpo. Che possa estendersi alla vita quotidiana di ognuno di noi. E sospetto perfino che un frammento di questa cura di sé si esprima anche in tutti i tentativi di parlare di sé che si leggono su Facebook.
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La malattia mi ha colto quando ero al culmine della mia vita di artista.
E non parlo solo della gioia di dipingere.
Parlo dell’entusiasmo che animava le mie giornate, parlo di quella sensazione intima che riguarda lo sviluppo della tua vita interiore.
Parlo di quella capacità conquistata, e ricevuta in dono, di alzarsi la mattina, ogni mattina, con uno sguardo capace di vedere la bellezza dell’essere vivi.
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A pensarci bene, la malattia mi ha tolto, temporaneamente, l’uso delle gambe, ma l’entusiasmo, la gioia di vivere, la voglia di fare, la creatività… In una parola, la mia vitalità interiore, quella no, quella c’è tutta. Probabilmente anche di più.
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I medici ti danno farmaci, ti prescrivono analisi, compilano un grosso fascicolo di dati. Il mio è già un grosso volume! Ma la salute interiore, l’energia buona che consente un atteggiamento positivo, quella spetta me.
Nell’antichità, Gorgia diceva che le parole sono farmaci.
Io credo di aver imparato l’arte di usare le parole giuste, quelle che producono ciò che dicono.
Il loro campo d’azione è proprio l’anima, la vita interiore.
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Io sono un solitario che sta bene in compagnia.
La solitudine è sempre stata per me una risorsa.
Il luogo dove potevo incontrare me stesso ed esercitare quella cosa strana che alcuni chiamano “essere connessi”.
Paradossalmente, è proprio dal mio modo di vivere la solitudine che si crea in me una bella apertura agli altri.
Inoltre, è nella solitudine che io trovo la fonte di quel poco di creatività che riesco esprimere.
E allora mi sento di sottoscrivere il vecchio adagio latino: Beata solitudo, sola beatitudo!
La malattia me ne regala molta.
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Non mi voglio identificare troppo con la malattia.
Ora c’è è la voglio vivere bene.
Ho sempre detto che l’arte non si limita a comporre un bel quadro.
Ho insistito nel dire a me stesso che l’arte è modellare la propria vita.
Adesso è il momento di modellare al meglio la mia malattia.
Ma io non sono la malattia.
Io voglio essere un artista che anima ogni cosa che tocca e ogni istante del suo tempo.
Voglio restare immerso nel flusso creativo, in quella cosa misteriosa che è l’ispirazione.
Voglio andare al mondo con questa fiamma accesa dentro il corpo.
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Mi sono alzato da letto. Ho le gambe doloranti e intirizzite. Eppure, aggrappandomi alla testiera, e cercando di fare in modo che il baricentro cada all’interno della base, riesco ad alzarmi. L’idea che sta dietro questo termine infelice di Medicina Narrativa esercita su di me una strana attrazione. Chissà? Sto pensando che dovrei mettermi a scrivere più seriamente. A buttare giù qualcosa di più dignitoso di un post. O forse sono proprio questi i modi della scrittura contemporanea: brevi pensieri sul social, perché corre voce che nessuno legga qualcosa che superi le tre righe.
A dire la verità, l’idea mi piace molto. E sul social mi sembra proprio di parlare a qualcuno che è lì. Anche se ultimamente ho superato molte volte le tre righe. Ne ho trovati molti. E in fondo io scrivo portando avanti lo stesso discorso. E scrivo pensando sul momento, e pensando davvero quello che scrivo.
Non è letteratura. La letteratura non c’entra niente con questa faccenda.
È pensare, però. O provarci.
E farlo in un momento in cui il desiderio di trovare forme di distrazioni più facili è abbastanza ricorrente durante il giorno. Passo la maggior parte delle ore a letto. Faccio un centinaio di solitari al giorno sull’Ipad, leggo qualche pagina di Camilleri – che ti fa sorridere ogni poche righe per le espressioni che sa trovare – mi inietto un mucchio di film privi di qualsiasi sostanza. A dire il vero ne incomincio a decine e non vado oltre i primi cinque minuti. A queste condizioni il cervello tende a intorpidirsi.
Forse è questo il motivo. È per questo che desidero scrivere: è perché voglio pensare e sentire che c’è qualcosa di vivo, ancora, nella scatola cranica.
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Mi sono trasferito dal letto alla comoda poltrona in studio, davanti al mio I Mac.
Ho disegnato con Paper sull’I Pad Pro rapidamente ciò che vedo dalla finestra est. Il cielo è un po’ velato e la macchia gialla nel centro dell’opera, più che il sole, è il riflesso sul vetro della lampada accesa. Qui sotto, la casa e l’orto dei miei vicini, più fatta a mente che realisticamente fedele.
Alla fine del Settecento, ad Aosta, dove stava di stanza con la guarnigione in cui militava da ufficiale, Xavier De Maistre (fratello di Joseph, quello reazionario), condannato per un duello agli arresti domiciliari per una quarantina di giorni, scrisse un libretto che lo rese famoso, “Voyage autour de ma chambre” (Viaggio attorno alla mia camera). Prendeva spunto da oggetti e mobili che aveva attorno per evocare ricordi e annotare riflessioni garbate e brillanti.
Mi sembra di fare qualcosa di simile, in questi giorni, condannato agli arresti domiciliari dalla malattia. Il titolo più appropriato, però, dovrebbe registrare una variante: “Voyage autour de mon lit” (Viaggio attorno al mio letto).
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