Specchio delle mie brame
Il quadro (90 x 140): E col pensiero io vado.
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Specchio delle mie brame.
All’inizio lo specchio era solo uno specchio. Ma aveva già tutto il mistero e il potere dello specchio. Guardarsi allo specchio non andava senza conseguenze. Il mito di Narciso ne è la testimonianza. Lo specchio poteva servire per controllarsi, per un esame di coscienza, per correggersi, per un sano amor proprio… oppure poteva produrre quell’incanto, quella malia che l’innamoramento della propria immagine mette in scena e che può portare a smarrire se stessi, la realtà e a inquinare i rapporti con il mondo e le persone.
Oggi lo specchio è la televisione. E i suoi poteri si sono moltiplicati, nel bene e nel male. Osservare i fenomeni prodotti dalla diffusione della televisione ha del fascinoso – al di là delle voci che esprimono timore e paura. E produce riflessioni e domande di tipo filosofico sulla nostra condizione umana e sul senso di quel che facciamo.
Ricordo che, durante il mio insegnamento di Filosofia nei Licei, avevo introdotto l’uso della telecamera durante certi seminari. Era una cosa insolita, allora, e godeva per così dire dei vantaggi delle innovazioni. Mi ero accorto infatti che la presenza della telecamera – anche da sola, fissa, in un angolo dell’aula; oppure nelle mani di uno studente, promosso sul campo operatore con la libertà di dare briglia sciolta al suo stile di ripresa – sortiva degli effetti positivi dal punto di vista didattico. Gli studenti esprimevano con maggior impegno la loro partecipazione, fornivano – si potrebbe dire – prestazioni migliori. Attenzione e partecipazione venivano facilmente evocate. Gli studenti diventavano protagonisti e questo li spingeva a recitare meglio la parte. Sapevano che sarebbero stati rivisti da un pubblico e questo alimentava la loro volontà di fare bella figura…
In un certo senso si trattava di una replica degli esperimenti di Elton Mayo nelle Officine Hawthorne della Western Electric Company nel 1924 che sono all’origine delle Human Relations. Essere oggetto di osservazione – essere sulla scena – produce miglioramenti nella produttività!
Ovviamente, la telecamera in classe era solo un trucco. Un espediente che mirava a rendere le lezioni più interessanti e la partecipazione migliore. Rivedere la cassetta consentiva di sottolineare le idee migliori e l’eccellenza di certi interventi, oltre che a segnalare quelli che potevano essere corretti. Ma… il discorso non è così semplice. Perché anche i trucchi hanno le gambe corte.
Ancora un passo indietro. Prima della televisione – ho i miei anni! – al posto della telecamera c’era l’Occhio di Dio. Era un occhio ai raggi X e infraossi perché penetrava anche negli ambienti protetti o nascosti dove uno pensava di potersi occultare. Insomma a quell’obiettivo non sfuggiva niente (altro che Candy Camera!) e registrava per l’eternità, probabilmente per esibire le prove il giorno del Giudizio. I meno giovani ricorderanno che uno dei modi per rappresentare il Dio era proprio un triangolo con un occhio dentro. Era il Logo della Televisione Imperiale! Era destinato ad incutere timore e a controllare il comportamento morale dei credenti. Ed aveva la sua efficacia.
Insomma, un occhio che ti guarda, essere sulla scena, ha i suoi effetti. Naturalmente tutto dipende dai valori che determinano lo share (l’indice di ascolto). Probabilmente il Dio di cui mi hanno parlato durante la mia formazione religiosa era troppo severo. Le sue aspettative erano piuttosto elevate per sperare di diventare l’equivalente di Brad Pitt sulla scena dell’esistenza…
Ma i criteri che determinano lo share attuale?
Il Dio che sta dietro l’obiettivo televisivo attuale vuole essere stupito, colpito, divertito, intrattenuto, sensualmente stuzzicato e emotivamente stordito. Di per sé non sembrano cose così difficili come l’astinenza prematrimoniale e l’onestà negli affari, il compimento integerrimo dei propri doveri e porgere l’altra guancia… Ma non per questo sono meno impegnativi a livello di performance…
Migliorare la comunicazione, la gestualità, il look, l’autostima, l’assertività, eccetera, sono cose carine e positive. Ma succede che questa valorizzazione dell’immagine, questa forma di narcisismo che sembra tipica dell’era televisiva, man mano che si perfeziona e si specializza tende ad anteporre l’immagine alla realtà di cui dovrebbe essere l’epifania. Perché la specializzazione e il perfezionamento della tecnica comunicativa si concentra su se stessa e sulla sua efficacia persuasiva, e non sul rapporto tra immagine e cosa rappresentata. La pubblicità è bella in se stessa, affascina, fa sognare e – attraverso questa via – induce all’acquisto. Ma il rapporto tra cosa rappresentata e rappresentazione diventa sempre meno essenziale, sempre più problematico.
Il virtuale si sostituisce al reale?
Molti lo stanno affermando. Molti esprimono timori catastrofici su dove ciò possa condurre. Non credo che il baratro dello smarrimento sia un destino ineluttabile. Ma conviene porsi la domanda. Essa può riguardare la vita delle persone anche più profondamente che il marketing. Ipotizzando che ci sentiamo tutti quanti sotto l’obiettivo della telecamera (che in tal senso ha sostituito l’Occhio di Dio di altri tempi), che effetti ha questo su la nostra “recita”? l’immagine che recitiamo è davvero la rappresentazione di ciò che siamo e dei sogni profondi che ci definiscono?
Il Dio severo ed asciutto dell’Antico Testamento – dicono – è morto. Morirà anche il dio dello share, perché anche questo dio nega qualcosa che ci appartiene di diritto: l’identità tra la nostra immagine-sogno e la nostra realtà.
Categorie: Eugenio Guarini