Categoria : Eugenio Guarini
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Amapola
L’avevano chiamata così in omaggio alla famosa canzone. Sua madre la cantava di continuo. Quando rimase incinta e nacque una bimba, la chiamò Amapola.
La ragazza era nata e cresciuta in un bordello, a Odessa, ed era stata introdotta al lavoro da sua madre stessa e dalle anziane. Ma non era la sua vocazione. A diciotto anni volle andarsene e, tra le lacrime delle donne, prese il treno per Kiev, vi lavorò per un paio d’anni, come cameriera in un locale, studiò le lingue per conto suo, s’innamorò di un giovane commerciante di tessuti che faceva la spola tra Milano e la Turchia, lo seguì nell’Italia settentrionale, e lo assistette fino all’ultimo respiro, quando il ragazzo morì di leucemia.
La conobbi a una mostra, in un locale di Milano. Dopo tre mesi si era trasferita nella Palestra di Elaborazione dell’esperienza. Ancora due mesi e già faceva parte dello staff di programmazione delle attività.
Lo sai? ti suono, un po’, qualcosa di semplice. Le dita non si sono ancora sciolte. Però ti suono qualcosa, voglio dire, suono Amapola, la tua canzone, quella che ti ha dato il nome.
Non so perché quelle spalle così tonde mi si attaccassero agli occhi. Eppure non sono più un pivello. Però mi sembrava di disegnarle, quelle spalle, larghe e tonde – solo a guardarle. Ma se si voltava, erano gli occhi che mi prendevano. Ho sempre avuto una passione per gli occhi.
Le donne che frequento o parlano troppo o parlano poco, a volte per niente. Amatola era di queste. Avrà detto due o tre parole, quella sera. In pratica, dicevo tutto io. Le domande e le risposte. Oppure le considerazioni, da destra e da sinistra.
Non so cosa mi fosse successo. Ero cambiato. Nel giro di due o tre giorni sentivo le cose in modo di verso. Io sono sempre qui che cerco non solo di vivere, ma anche di capire quello che è successo. Nella speranza che un giorno potrò vedere per benino quello che sono e che ho combinato.
E andavo a letto, con la speranza di svegliarmi padrone delle mie azioni. Cosa che succedeva di rado.
Amapola diceva: Ci sono momenti duri nella vita di ognuno. È lì che la gente si fa. Attraversando quei momenti. Ma, quando la vita torna a fluire generosa dentro il corpo, è il momento di fare, di darsi da fare. Ognuno ha le sue doti. Ci sono per qualche motivo. Non importa chiarire in lungo e in largo perché. Bisogna seguire. Il fiuto! Lo sai, il fiuto.
C’era una gran voglia di fare. Di darsi da fare.
Noi cercavamo di convincere i più giovani a lasciarsi dietro le spalle tutti quei motivi per piagnucolare. Alcuni intuivano, altri non riuscivano a staccarsi dal piacere di soffrire. In fondo, erano stanchi e non immaginavano una vita senza stanchezza.
Amapola era una corrente di vita che fluiva attraverso il territorio dell’umano.
Quella sera, prima di andare a letto, pensavo quello che mi era successo. A quello che avevo combinato con me stesso. E vedevo le cose in maniera fresca e semplice.
Dicevo: Ecco, ho cominciato a fare il pittore pensando di aver trovato un espediente per guadagnarmi da vivere in libertà. Era rischioso, ma ero libero.
Poi sono successe tante cose. Non solo vendevo quadri, ma attiravo persone. E cresceva lo spessore della mia impresa. Mi dicevano che raccontare la mia avventura aiutava gli animi a credere. E io ho scoperto che mi piaceva essere un narratore di leggende umane. E allora sono diventato uno scrittore. Era bellissimo.
Poi mi tiravano dentro un sacco di cose che per me erano territori ignoti. E io mi affidavo agli eventi. Mi sembrava di capire se dovevo seguire qualcosa che capitava o se dovevo lasciarlo perdere. Era tutto un altro modo di pensare. Non era niente male. Perché dentro mi sentivo vivo e denso. E, nello stesso tempo, leggero.
All’inizio, per esempio, ci furono le vinerie. Io mi ero detto: niente gallerie, sì alle vinerie. Non che avessi qualcosa contro le gallerie. Piuttosto volevo seguire la mia strada e trovare la mia gente. E la trovai nelle vinerie.
Dopo un po’ arrivarono quelli dei saloni di bellezza. E io dissi: ora seguiamo questa pista. Perché? Semplicemente perché la gente che avevo incontrato e che me lo proponeva emetteva una buon odore.
Cazzo! A vivere in questo modo, mi sembra di non aver mai sbagliato una battuta. E, se ci penso, mi sembra impossibile. Eppure, fin dall’inizio, mi piacevano le cose impossibili. Mi piaceva pensare che credere nei miei sogni rendeva possibile l’impossibile.
Credevo in Dio? Ma cazzo! Certamente che ci credevo. Però non era un Dio molto conosciuto e accreditato. Non aveva una carta d’identità così definita. E spesso ci litigavo. Ci litigavo perché non potevo accettare che fosse così bastardo e indifferente. Ma, dopo tutti questi battibecchi – tra me e me – finivo per concludere che ero io a non capire cosa fosse bene e cosa fosse male.
Non avevo nessuna intenzione di lasciarmi rinchiudere dai miei pensieri in un universo etereo al di sopra delle nuvole, con tutti i buoni sentimenti e la musica angelica. Ma credevo nell’importanza di una certa spiritualità. Perché, semplicemente, inventavo un mondo per me, che avesse un significato – almeno quello delle favole. E questo mondo mi piaceva molto di più di quello che la gente con la testa sul collo disegnava. Era sufficiente, per le mie esigenze.
E poi, credevo davvero anch’io quello che mi diceva un’amica siciliana: che la vita non è quello che accade, ma quello che fai con quel che accade.
Erano, più o meno, queste, le cose che Amapola mi faceva pensare – la ragazzina di odessa, nata in un bordello.
Belle Notizie
Eugenio Compagnoni è davvero un signore nel cuore. Un’ospitalità così non passa senza lasciare un segno. Sabato 22 gennaio ho istallato i miei quadri nel suo locale, a Vicenza, presso il Boscolo Hotel, in Via Verona 12. Provo a mettere nel Diario di Bordo del sito le foto di quella serata. Se le vuoi vedere, clicca qui.
Il mio libro”Da qui a lì” è sempre a disposizione. Dicono che fa bene e io ci credo. Puoi ordinarlo scrivendomi qui. Ti verrà inviato e ti verrà detto come pagarlo.
Il quadro: Amapola (acrilico su tela cm 100 x 100)
Eugenio Guarini
http://www.eugenioguarini.it
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