Cosa voglio fare da grande
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Cosa voglio fare da grande
D’accordo – disse Joe – ci fu una certa confusione.
Era l’inizio di settembre e la vita lavorativa riprendeva ritmo dopo le vacanze estive. Noi non c’eravamo fermati d’estate. Ma ora sembrava come quando da ragazzini si riprendeva la scuola. Molti erano eccitati per la ripresa dell’attività. E c’era, poi, il numero enorme di quelli che, dopo le vacanze, stentavano a rientrare nei ranghi. Qualcuno aveva anche sognato di cambiare tutto. Di dire basta e ricominciare un’altra storia.
Una certa confusione – continuava Joe – Alcuni sembravano avere idee chiare. Voglio dire, sapevano cosa volevano, cosa sognavano. Potevano dirlo con poche parole, se qualcuno glielo domandava. Sapete? Era come tirare con l’arco e centrare subito il bersaglio. Per loro il problema era tutto sul come fare? Loro cercavano modi di pensare il come.
Molti altri si rendevano conto di non avere un sogno, di non sapere cosa volevano. Io ero tra questi. Mi agitavo, scrivevo ai consulenti, mandavo curricula, dicevo: cerco un altro lavoro. Ma quando arrivava la domanda: ma cosa vuoi fare?, beh quando incappavo davvero in questa domanda… mi rendevo conto che la evitavo. Mi rendevo conto che…
Insomma, sai? – pensavo – Se uno non sa che cosa vuol fare? Se uno sente solo che lì, dov’è, non si sente a posto, non ci sta bene… Se uno ha a che fare soltanto con questo senso di disagio – questo non è il mio posto, qui non ci sto bene…- se uno ha questa sensazione che lo accompagna da anni… Insomma – pensavo – qualcuno è più fortunato. Lui sa. Almeno questo: lui sa. Ero confuso.
Io pensavo che dovesse avvenire qualcosa come una folgorazione – Ecco, ora ho capito che cosa voglio fare – Come nelle favole del Principe Azzurro… Sai? Lui compare, sul cavallo bianco… e tu ti rendi conto che …
Insomma aspettavo che accadesse…
Joe aveva un paio di baffetti ben curati. E un taglio di capelli moderno, ma non troppo corti. Muoveva le mani mentre parlava, muoveva le mani con una certa energia. Come per dire che qui c’era una faccenda importante. Aveva due bambini piccoli e una bella moglie – Sara – che aveva conosciuto via e-mail.
Adesso gestiva una trattoria, un po’ all’antica, con cibi genuini e prodotti locali. Non voleva troppi clienti, preferiva lavorare su gente che conosceva, amici, e gli piaceva creare un clima di familiarità. Voglio dire, le coppie che conosceva, con i bambini, il personale come gente di famiglia, una dozzina di tavoli, e poi le chiacchiere, i loro discorsi che erano importanti e in essi si cercava sempre di coltivare la ricerca di senso, le cose che contano, e i bambini, il loro futuro, l’educazione, i giochi, la presenza…
Si parlava molto dei bambini, erano tutte coppie giovani, ma parlare di bambini era un po’ parlare del futuro, da persone che volevano contribuire, dare il loro apporto e che volevano essere veri, vivi, gente che si era scrollata di dosso il passato e ora pensava che aveva qualcosa da fare per dare continuità alla vita…
La sua idea di trattoria era un po’ l’estensione dell’idea di famiglia e un po’ più della cena tra amici. Era una bell’idea, perché aveva le radici in quel che sentiva. E quando l’aveva capito, quando l’aveva deciso, vi ci si era trovato…, beh, allora, finalmente, aveva cominciato a vivere e fare…
All’inizio c’è questo periodo di confusione. Tu aspetti che arrivi una folgorazione. E forse succede proprio così. Ma quando successe, io so che avevo già cambiato atteggiamento. So che avevo deciso di non attendere più il Principe Azzurro.
Cosa voglio dire? Come fai a spiegarlo? C’è qualche cosa che non riesco a dire… Ci provo, forse il punto è qui: smisi di aspettare il Principe Azzurro e cominciai a buttarmi. Dicevo a me stesso: va bene, non so cosa voglio fare, ma lo voglio. E allora comincio a muovermi in certe direzioni, ci provo, e intanto smuovo le acque.
Sapevo che mi piaceva cucinare, questo lo sapevo. Allora lavoravo in una cassa di risparmio locale. Cambiai. Incominciai a lavorare come aiuto cuoco in un ristorante. Conobbi della gente che sapeva il fatto suo in fatto di alimenti e di cucina. Col tempo, mi resi conto che quel ristorante era un luogo stretto per me, ma grazie alle conoscenze che erano nate, mi trasferii in un agriturismo molto speciale. E intanto facevo esperienza. E intanto mi rendevo conto dell’immagine che mi chiamava.
A un certo punto mi sentii pronto. Nel frattempo avevo conosciuto Sara. Lei era d’accordo. Insomma, per farla breve, abbiamo aperto questa trattoria. Io mi sentivo ripetere in testa una sorta di ritornello: qui i tuoi figli staranno bene. Mi attirava questo ritornello. Pensavo: voglio creare un posto dove le giovani coppie vengono perché noi ci occupiamo dei loro bambini come si farebbe in famiglia. Sai, i bambini sono molto diversi, molto speciali. E i loro genitori, come tutti noi… bene, creerò un posto dove la gente possa venire a cena con i propri bambini e troverà un ambiente familiare, dove i capriccetti o le idiosincrasie dei propri figli non saranno vissute come un handicap, qualcosa di cui vergognarsi, al contrario..
Insomma ho avuto quest’idea… era quello che sentivo… E ora mi sembra proprio di averla realizzata…
Era l’inizio di settembre. Tutto intorno sembrava riprendere il ritmo. Joe agitava le mani e insisteva, più col corpo che con i concetti. Voleva farci capire che il punto era di decidere-capire quello che si voleva, non soltanto che non si stava bene dove eravamo. E che non bisognava aspettare l’illuminazione restando passivi, ma incominciare a muoversi in una direzione. Che così si sarebbero provocati fatti e si sarebbe andati incontro a opportunità e che, strada facendo, avremo compreso-deciso meglio quello che volevamo.
E noi intuivamo che questo era il modo di decidere su se stessi. Non aspettare l’illuminazione, ma andarle incontro e provocare eventi, da cui imparare e da cui farsi guidare.
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