Bolla d’aria
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Bolla d’aria?
Lo sentivamo tutti, nel gruppo degli ontonauti: non erano solo le condizioni esterne, il contesto, a mutare. Noi stessi, ognuno di noi, avvertiva che era in atto una mutazione. Sapevamo qualcosa sulle mutazioni genetiche, ma qui si trattava di qualcosa di psicologico, era la meteorologia – per così dire – della nostra psicosfera a subire degli scossoni.
Non sapevamo come mettere a fuoco con chiarezza la faccenda. Da un lato ci sembrava che la mutazione fosse l’effetto dell’ambiente su di noi, dall’altro pareva che le mutazioni ambientali creassero un’opportunità perché avvenisse qualcosa che desideravamo da sempre.
Molti, nel mondo dell’economia e della società, insistevano sulla necessità di adattarsi alle nuove condizioni. In questo senso la mutazione doveva essere uno sforzo volontario, un management consapevole…
Diversi di noi, pur nel caos e nella turbolenza cui la nostra formazione non ci aveva preparato, leggevano nel processo in atto quasi una chance. E si preoccupavano più di lasciarsi guidare, di seguire, che di dirigere il cambiamento…
Il nostro mondo era una mescolanza inestricabile di tutti quei fattori che la nostra educazione ci aveva insegnato ad individuare e a formulare, e del contrario di ciò che sapevamo. Tutte le rotte precedentemente tracciate erano improbabili, eppure dovevamo seguire quelle rotte. I viaggi d’esplorazione si frantumavano dopo i primi passi e bisognava cambiare direzione. Avventurandosi spesso a tentoni.
Dovevamo imparare a sviluppare la nostra energia, ad irrobustire i nostri corpi, a calmare e rendere fluide le nostre menti, in una situazione d’ignoranza, di rischio e turbolenza.
Il sistema di previdenza e d’assicurazione non assicurava più niente. Non ci si poteva più fidare di istituzioni e organizzazioni esterne allo stesso modo in cui non ci si poteva più fidare delle ideologie.
Volevamo raggiungere gli uomini e le donne, attraversando con la determinazione di una freccia il loro ruolo.
Ciò che noi accettammo fu che crollassero tutte le incrostazioni, tutti i ruoli, tutte le gabbie che una volta ci sostenevano e che ora erano diventate prigioni.
Ritornammo fluidi. La nostra pelle s’irrobustì attraversando la prova graffiante dei rovi. Il cuore ritrovò l’antico coraggio, e ci trovammo capaci di decidere anche in assenza di certezze. La smettemmo di piagnucolare, di accusare il destino, o di attribuire la colpa ad altri. Sentimmo la fierezza di assumerci la responsabilità di tutto quello che ci capitava…
Vedevamo con maggiore chiarezza l’intreccio tra soggettivo ed oggettivo. Una colpa non era solo un senso di colpa, un sogno non era solo un’immaginazione desiderante, un bisogno non era solo un senso di mancanza. La nostra coscienza non era una bolla d’aria: ci conduceva a fare, diventava azione. Così la nostra vita riprese ad essere interessante davvero.
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Eugenio Guarini
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