Sostenere
Ero un sognatore, innamorato della vita e delle cose che potevano succedere. Andavo incontro agli eventi con il cuore pieno di slancio e di desiderio.
Allora avevo lo studio in quel palazzo davanti alla stazione. Palazzo del Sole, lo chiamavano. Non era proprio il fior fiore degli edifici di Rivarolo. E forse l’appellativo gli derivava dal fatto di essere tra i più alti del paese, con i suoi undici piani. Ero un sognatore, innamorato della vita e delle cose che potevano succedere. Andavo incontro agli eventi con il cuore pieno di slancio e di desiderio.
La mia tana era al terzo e, dalla finestra, potevo vedere i treni arrivare con le consuete processioni di uomini e donne che andavano al lavoro e tornavano dal lavoro, di studenti che andavano all’università e tornavano dall’università. E quell’immagine mi faceva guardare da una certa distanza la vicenda umana di ognuno di noi. Una continua ripetizione di giornate sempre uguali, nella speranza di uscire in qualche altro mondo e di realizzare sogni segreti.
Due stanze, un cucinino e un piccolo bagno. Pagavo poco d’affitto. Mi c’ero rifugiato per fare le mie cose, dopo che mi avevano fatto capire in casa che ero d’ingombro. Ho sempre avuto bisogno di uno spazio mio. Senza questo spazio non avrei mai creato le mie lezioni di filosofia, inventato il giornalino scolastico e neppure avrei sviluppato l’arte del sognare. L’arte del sognare ha bisogno di uno spazio tutto per sé.
Ero un tipo melanconico – lo sono sempre stato – che cercava quotidianamente di tenere testa alla depressione. Per la verità con relativo successo. I miei amici e conoscenti mi spacciavano per un carattere estroverso, di buona compagnia, che amava chiacchierare con verve e che aveva effetti benefici nei suoi interlocutori.
I miei studenti mi volevano un bene dell’anima e io m’innamoravo delle mie studentesse più belle. Per una di queste avevo fatto pazzie. E la cosa era durata a lungo. Ma alla fine lei se n’era andata e aveva finito per sposare un suo coetaneo, sparendo di punto in bianco dall’orizzonte. E a me era rimasto il ricordo di quei seni sodi sotto la camicetta. E del suo sorriso triste. E del desiderio che aveva nel corpo di una vita diversa, di un mondo diverso, di un altrove che non sapeva neanche come raffigurarsi.
E io ero anche un po’ così. Alla ricerca di un altrove, dove andavano a finire tutti i miei sogni, come vivaci affluenti di un gran lago nella nebbia. E dunque eccomi per il mondo, un po’ zingaro, un po’ intellettuale. Ma soprattutto senza fissa dimora e intriso di desiderio come una zuppa inglese. Finché trovo quest’alloggio, relativamente poco costoso, al terzo piano del Palazzo del Sole. E c’istallo le mie cose.
Perché senza uno spazio tutto tuo per dedicarti alle tue cose, beh, io proprio non ce la faccio. E questo spazio era al terzo piano del Palazzo del Sole ed è stato lì che è maturata la decisione di questo cambiamento, un po’ per volta, ma tutto sommato piuttosto rapidamente e a fondo nell’anima.
Oggi sono in un altro alloggio, più luminoso e meglio esposto. I miei libri cantano colorati dalla scaffalatura, quadri dappertutto, come una sinfonia lussureggiante. Cucino decisamente meglio. I miei amici si sono centuplicati. Da stamattina ho ricevuto quasi duecento mail. Ho risposto quasi a tutti, scambiando affetto, ricevendo sostegno e dando a cuore aperto il mio. Ho un’esposizione all’Holiday Inn di Moncalieri, un’altra a Comfort & Design di Rosta, una recente al The Frog di Torino, sto preparandone una nuova per il Crowne Plaza di San Donato Milanese e seguo quattro trattative in corso.
Perché mi dico questo?
Laura – che oggi mi riscrive dopo tanto tempo – mi ha chiesto una volta: sei proprio convinto che a credere nei sogni questi si realizzano?
Se mi guardo intorno mi rendo conto che tutto questo una volta era un sogno e ora è qui.
Non ho fatto che sognare. Ho lasciato che i sogni guidassero le mie mani e le mie gambe. Ho lasciato che mi prendessero per il sedere quelli che si professano realisti. Ho continuato a sognare. Ho preferito il linguaggio dei bambini. Ho detto senza imbarazzo “ti voglio bene” quando il cuore lo sentiva. Ho pianto quando ero triste. Mi sono lasciato spezzare dal dolore quando mi hanno ferito. Ho ancora addosso una potente capacità di sognare.
Laura, amica mia, sogniamo insieme?
Un abbraccio,
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Categorie: Eugenio Guarini