Vorace ricerca di non so che
Il quadro: Désir qui prend corps
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Vorace ricerca di non so che.
Patrizia, tu dici “la vorace ricerca di non so che” e mi sembra un’espressione felice. Voglio dire calzante. Perché il nome di ciò che cerchiamo, oggi non è più tanto facile dirlo e darlo.
Tutto è diventato così fluido che non sappiamo decidere una volta per tutte se sia una liberazione o sia uno smarrimento.
Forse stiamo rimpiangendo segretamente i tempi in cui i grandi maestri del pensiero ci avevano indicato il fine con nome e cognome?
Ora che sono crollate le ideologie e che soffriamo un po’ la sindrome degli orfani – parlo dei più vecchi, perché mi è difficile parlare di cosa soffrano i più giovani -, a volte ci sentiamo liberi esploratori dell’essere, eccitati dalle meraviglie che ci attendono nella foresta o al fondo dell’oceano. Altre volte siamo smarriti e tremebondi come affamati e riarsi che han perso la bussola.
E tu – sembra – appartieni alla schiera di quelli che sentono dentro la fame vorace di qualcosa che eccede sempre i confini di ciò che hai a disposizione. Pazzia di una cultura dell’irrequietezza? O presenza dello spirito vitale autentico?
Comunque, mi pare, questo una volta era chiamato sofferenza. E che vivere per l’uomo fosse soffrire non c’è stato dubbio per secoli. L’uomo aveva messo in chiaro nel corso dei secoli di riflessione che il suo desiderio di felicità puntava all’infinito e che niente di finito e limitato poteva acquietarlo. E dunque l’uomo era una passione (che voleva dire “patire” e, per alcuni si trattava di una “passione inutile”). I più doloranti arrivavano alla conclusione risolutiva secondo cui, poiché niente era capace di reggere alla morte, nulla valeva la pena.
Solo recentemente è venuta a galla questa voglia di dichiarare che la felicità è a portata di mano. È qui. E che basta lavorare un po’ la mente per abbeverarsi ad essa.
Quest’idea curiosa (e ammaliante) che noi siamo già felici, solo che non lo sappiamo è un evento recentissimo (anche se ha precedenti storici elitari). E solo da pochi decenni si fanno su vasta scala tanti esercizi “spirituali” per riuscire ad entrare in questo stato di beatitudine da cui saremmo separati soltanto da una cattiva visione delle cose.
Si dice che il corpo non distingue tra immaginazione e realtà. Per esempio, se incomincio a immaginare la grigliata che intendo fare con i miei amici in settimana già sento l’acquolina in bocca. E di questo passo, se immagino di ottenere, di possedere di già ciò che desidero sommamente, il corpo e gli umori si adegueranno. Se sono capace di immaginare di essere nell’abbondanza, non mi peseranno più quelle dannate bollette da pagare che mi tormentano periodicamente. Non solo, ma mi comporterò in modo da favorire la conquista dell’abbondanza reale. Se immagino che l’amore che mi ha lasciato sta già tornando indietro, la pena scivolerà via dal mio cuore come l’acqua del lavandino, lasciando il posto all’intensa intima gioia di chi si sa amato.
Fino al secolo scorso tutto questo era chiamato “illusione” e si sapeva che l’illusione era un’illusione, anche se si decideva di confortarsi con le illusioni. Anche se ci si compiaceva di illudersi almeno un po’ ogni tanto.
Ma oggi sembra sia diventato più difficile distinguere chiaramente tra illusione e realtà. Tra soddisfazione illusoria e soddisfazione reale. È possibile perfino che il mondo della creazione fantastica, immaginifica – sto riferendomi alla televisione, al cinema, ai reality – sia talmente perfetto da essere meglio – e quindi più reale – della realtà. E in questo