Categoria : Eugenio Guarini
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Lettere da Nosolandia 11.
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L’ambulanza arriva in ritardo rispetto il programma. Hanno fatto un trasporto prima di venire da me e la visita è durata più del previsto. Comunque il centralino ha avvisato l’ospedale e anch’io sono stato messo al corrente. Quando arriva è ormai la solita prassi. L’ascensore mi porta fino a piano terra. Poi ci sono quei dannati sette gradini. Mauro, il barelliere, mi sta vicino e regge le stampelle, e io, aggrappato alla ringhiera, riesco a fare un gradino per volta fino in fondo. Poi sono caricato in barella sull’ambulanza. Il guidatore è Dario. La macchina deve avere gli ammortizzatori un po’ provati. Sento sulla schiena tutti i dossi, le buche, le crepe e l’acciottolato di Ivrea. Va beh, non si può avere tutto.
La visita è come te la puoi aspettare. Il tecnico dello studio elettromiografico è professionale e gentile. Mi toglie le calze e mi sfila i pantaloni. Mi avvisa quando sto per sentire le scosse. Il medico termina di scrivere il verdetto della visita di chi mi ha preceduto, poi si unisce al tecnico. Mentre sono attraversato dalle scosse, loro parlano tra loro a mezza voce. Parlano di me? Parlano di altro? Io sono lì, sdraiato, in mutande, senza calze, con gli elettrodi che si spostano da una parte all’altra delle gambe. Nessuno mi dice niente. Ho l’impressione di non esistere ai loro occhi. C’è lo schermo del computer e le mie gambe, laggiù, con quei fili e quegli elettrodi.
Il tecnico a un certo punto mi dice che la visita è terminata. Mi mette le calze, mi passa i pantaloni. M’infila le scarpe. M’invita a sedermi sul letto e ad alzarmi, ”con calma, quando si sente”.
Io vorrei parlare. Vorrei che mi dicessero qualcosa. Compilano fogli.
Il tecnico, quando vede che sono in piedi, m’invita a uscire e attendere fuori il reperto.
Non resisto. Mi rivolgo alla dottoressa. “Mi dice qualcosa a parole?”
Lei, guardando i fogli con i dati: “La situazione non è peggiorata” (io aspettavo un miglioramento). Poi aggiunge: “A stare al quadro che risulta dall’elettromiografia, non è giustificato che lei cammini con le stampelle”.
“E allora?”, chiedo io.
“Bisogna capire quale sia la causa. Non gliel’ha spiegato la dottoressa?”.
“Se me l’ha spiegato, non l’ho capito. Cosa ne dice lei?”,
“Io non so, deve chiedere una visita neurologica. Se i canali sono stretti e i nervi sono stati danneggiati, non c’è molto da fare…”.
“Quindi non potrò più camminare?”
Lei deve vedere che c’è un po’ d’angoscia nella mia domanda ma rimane distaccata:
“Chieda una nuova visita neurologica”.
Saluto ed esco. Con i barellieri attendo i fogli dell’esito.
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Ovviamente sono scosso. Non voglio rinunciare a credere che le mie gambe ritornino funzionanti. Ma so, nel profondo di me stesso, che se anche il mio futuro fosse in carrozzella, ho la capacità di riorganizzare la mia vita e d’impegnarmi ancora di più nelle cose che amo. Non è quello che sto facendo adesso?
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Allora senti questa. Da seduto, agli arresti domiciliari, ho intravisto una cosa luminosa. Te la dico subito. Lasciami un po’ di suspense, si fa per dire.
M’è venuto in mente che noi siamo nomadi, originariamente. E che il viaggio, lo spostarsi di qua e di là, è il nostro modo di conoscere. O di rispondere al desiderio di conoscere. L’hai capito perché ci sono tante barche nei miei disegni? È per viaggiare. Il viaggio è il modo in cui si può conoscere.
Ma da seduto? Da relegato in casa?
Ah, ora è più chiaro quanto sia vero e importante il viaggio mentale.
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