Lettere da Nosolandia 6

Lettere da Nosolandia 6

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Io sono mansueto.
Lo sono diventato man mano che capivo che non m’interessavano poi tanto le performance e i successi, né mi ferivano davvero le offese e le provocazioni.
Ma nell’interno di me, oserei dire nel nocciolo caldo del mio essere, vive un’inquietudine irresistibile, cui sono grato immensamente perché è il fuoco che mi spinge senza posa a cercare nel profondo il senso della mia vita.
Non si tratta dell’ansia per qualcosa che non va, e nemmeno del senso di debolezza e di impotenza che la malattia mi ha fatto conoscere.
È qualcosa di più profondo e di più intimo e di più vitale.
È essa che tiene tutto sempre in movimento e non consente di quietarsi su una qualche comoda sedia.
Essa è tutt’uno col desiderio. Tanto da poter dire che io non ho desideri né domande, ma sono desiderio e domanda.
E non c’è saggezza meditativa e quieta beatitudine che con essa io cambierei.

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Durante la malattia e la degenza a letto il ricorso all’intrattenimento è stato molto maggiore rispetto al mio solito. Solitamente era minimo. Quasi piccole pause in giornate di lavoro appassionato per qualcosa di rilevante. Ora invece ho raccolto tutto quello che potevo trovare per soddisfare il bisogno di distrazione. Molto di quello che ho trovato, era di scarsa qualità. Molte volte mi sono domandato come sia stato possibile che della gente abbia investito soldi, tempo ed energie creative per produrre quella roba lì. C’è tutta una massa d’intrattenimento che presuppone che il pubblico sia molto meno intelligente di quello che è. E tende a coltivare quel bisogno di abbandonarsi a qualcosa, dimenticando chi si è. Una forma di droga, senza dubbio, perché alla lunga si è storditi. Un buon programma, un buon film, un buon libro, ha in sé il potere di provocare una sorta di “erezione della mente”. Ti sveglia, ti accende l’energia vitale, ti dà la gratificazione dell’intelligenza e dell’emozione, che si slanciano verso la creazione. L’effetto di un prodotto artistico è di farti sentire ricaricato di vita e di desiderio creativo, ti fa dire: “Anch’io!”.

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Da alcuni anni ho con me il libro di David Foster Wallace, “Infinite Jest”. È un grosso volume di 1200 pagine. Dopo lo sconcerto e il disorientamento delle prime 150 pagine, ho interrotto la lettura e l’ho parcheggiato, in attesa di qualche miracolo… L’anno scorso è comparso all’orizzonte il libro di David Lipsky, “Come diventare se stessi”, che contiene la lunga intervista che il giornalista ha fatto a David Foster Wallace, accompagnandolo per alcuni giorni a una presentazione promozionale del libro in questione. L’ho comprato nella speranza che mi aiutasse ad accostarmi a un testo di letteratura sperimentale, non facile da leggere, che aveva avuto una certa risonanza nella critica.
Poiché Lipsky scrive in maniera abbastanza lineare, mi è sembrato di riuscire ad avvicinarmi un po’ alla personalità dell’autore (senza che questo costituisca una garanzia per rendermi comprensibile “Infinite Jest”). Il libro consente di entrare un po’ nella testa di David Foster Wallace, di comprendere la sua audace visione della scrittura, il suo inquieto rapporto con il successo, il giudizio severo nei confronti della TV e dell’intrattenimento commerciale, e la preoccupazione un po’ apocalittica per dove stiamo andando sotto l’effetto della cultura dominante (il consumismo).
David vede la sua generazione “svuotata dal di dentro”, avviata lungo la strada della morte interiore. Perché, abbattute le regole repressive di un sistema autoritario, non l’abbiamo sostituito con valori alternativi. “L’idea che abbiamo diritto a godere senza limiti sta svuotando l’anima di una generazione”.
Sono idee largamente diffuse tra le persone intelligenti e sensibili. E sembrano l’espressione di ciò che gli intellettuali debbano fare: denunciare i mali e i pericoli del presente.

A essere sincero, non mi attirano per nulla. Non perché siano del tutto false. Indubbiamente mordono sulla realtà. Ma hanno, ai miei occhi, il difetto di demonizzare frettolosamente e condannare in anticipo un’intera generazione e la stessa civiltà occidentale. Probabilmente tali profeti sono animati dalla convinzione che gridare al lupo sia sufficiente a provocare una reazione sana. Non ne sono convinto. Il moltiplicarsi di queste voci ha dato vita a una “comunicazione rancorosa” da cui non credo ci si possa attendere qualche esito positivo.
Preferirei una dichiarazione di fiducia nelle energie potenziali di una generazione di uomini e donne, con un invito coraggioso a lavorare per affrontare la sfida eccitante e appassionata del cambiamento, per svegliare le coscienze con la passione dell’operosità creativa e costruttiva. In fondo è anche eccitante essere chiamati ad affrontare una grande sfida. Molto più che sentire piovere addosso la minaccia dell’Apocalisse.

È la stessa cosa con la malattia. È preferibile sposare un atteggiamento di costruttiva operosità fiduciosa, piuttosto che vedere il fatale avanzamento della morte nella conquista del nostro essere.

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Jodorowsky dice che la vita non ha senso e ha buon gioco nel farlo perché “La ricerca del senso della vita è una faccenda intellettuale. La vita è tutto fuor che intellettuale. La vita bisogna viverla”.

Io penso che la domanda sul senso della vita abbia invece il suo posto importante nel vivere. Per questo motivo non ci si deve sbarazzare così frettolosamente di una domanda che ha le radici nel più profondo di noi e che ha generato e produce tanta cultura e consapevolezza.
Si può cercare di capire il senso di questa domanda, che non si accontenta certo di una risposta concettuale.
Quella domanda non è una fredda questione intellettuale. La domanda è esistenziale. È il bisogno di “sentire” (il “senso”) la presenza di qualcosa che rende la vita veramente vivibile. Vuole sentire che la vita è buona, che ci ama, che ci nutre, ci sostiene per sconfiggere tutte le paure. È la ricerca di qualcosa che abbia il potere d’infondere fiducia e slancio creativo, invitando alla creazione quotidiana dell’essere.
Poiché questa garanzia non è immediatamente data, poiché ci si trova davanti a un’Assenza inaccettabile, ecco la domanda, che non è solo domanda di sapere, è domanda di avere, di ricevere, di sentire dentro. È Desiderio. E allora questa domanda, alla fine, è un invito a cercare (non solo con l’intelletto) il Santo Graal.
Ed è questa ricerca stessa, la sfida che pone alla fiducia, il coraggio che richiede, lo slancio per certi versi folle cui si affida, che fa “sentire” il senso della vita.

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Amélie Nothomb, in “Acido solforico” racconta una cosa deliziosa che fa al caso nostro (sto parlando di noi che stiamo attraversando quest’esperienza di malattia, ma credo che vada bene per tante altre situazioni di disagio).
Racconta di un prigioniero in un campo tedesco durante la seconda guerra mondiale. Le condizioni di sopravvivenza disumane e disumanizzanti. Lui e i compagni si stavano trasformando in poveri selvaggi, bestie sofferenti. Nelle loro menti, pensieri insopportabili.
Un giorno quest’uomo ebbe un’idea geniale. Inventò il “gioco della dama”. Il gioco consisteva nell’immaginare che in mezzo a loro ci fosse una dama d’alto rango, di fronte alla quale ci si sarebbe dovuti comportare in maniera degna della sua nobiltà. Tutti accettarono di costruirsi questa fantasia. Un po’ per volta, a forza di vivere alla presenza della nobile dama, avevano ripristinato la civiltà e si resero conto di essere salvi. Questa vittoria della mente sostenne i prigionieri fino alla fine.
Mi sembra davvero una bella storia. La comprendiamo bene noi tutti che cerchiamo di tenere alto il morale in una situazione in cui il dolore e l’impotenza suggerisce quotidianamente una sorta di deriva. L’immaginazione è capace di fare questi miracoli.
“Chiunque conosca un inferno durevole o passeggero, per affrontarlo può ricorrere alla tecnica mentale più gradevole che esista: raccontarsi una storia. L’infelice che riesca a riempirsi il petto di un soffio di grandezza rialza la testa e smette di compatirsi” (A. Nothomb)

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Quelle passeggiate meditative che facevo al mattino.

Nell’economia delle mie energie avevo introdotto una pratica straordinariamente felice ed efficace. La chiamavo “Passeggiata meditativa”. La facevo tutti i giorni che non piovesse o nevicasse. Dopo la colazione e una rapida toilette, era la prima cosa della giornata.

Risaliva ad almeno quindici anni prima. Quando avevo smesso di fumare, nel corso di una bruttissima bronchite asmatica e dieci giorni d’insufficienza respiratoria. Ero uno straccio. Fumavo circa quaranta Marlboro al giorno. Quella notte credetti di stare per morire, affogato nel mio catarro. Mi spaventai. Smisi di colpo e promisi a me stesso che avrei camminato almeno mezz’ora al giorno.

Guarii dalla bronchite. Mantenni la promessa. Successe che incominciai ad amare quelle camminate, mi aiutarono a guarire lentamente nel corpo e mi fecero scoprire il nutrimento per l’animo del muoversi lentamente, in campagna o in montagna, sempre in solitudine, nei boschi e sulle cime, lungo i seminativi e i canali.

Da quando faccio l’artista sono attentissimo a quella che chiamo la “Politica energetica” della gestione della mia vita. Il principio fondamentale di questa politica è dare all’energia e alla vitalità il primo posto nella lista delle priorità. Avendo intuito il potere energetico di questa tranquilla passeggiata meditativa, l’ho inserita nella mia pratica quotidiana. È diventata presto il momento più importante del giorno. Anche quando al mattino le cose da fare ti saltano subito incontro, non appena esci dal letto, ho dato sempre la priorità alla passeggiata. Solo al ritorno mi sarei occupato delle cose da fare. E ho scoperto presto che la passeggiata mi consentiva di farle in uno spirito sicuramente migliore.

Mi ero costruito una mappa dei luoghi solitari, dove potessi andare, variando il percorso, per non correre il rischio della noia. Ne avevo di relativamente vicini e di lontani. Mi spostavo nell’uno o nell’altro con la macchina, a secondo della decisione del momento. Parcheggiavo ai margine della solitudine e … andavo.

Alcuni di questi luoghi, tutti bellissimi, erano a un quarto d’ora di guida, altri anche a un’ora o due. In questo secondo caso andavo col camper, o l’auto, attrezzati di tutto quello che serviva per mettermi a lavorare all’aperto, dopo la passeggiata meditativa. Mi portavo anche qualcosa da mangiare perché sarei rientrato solo nel pomeriggio. Dicevo a me stesso che andavo a lavorare nel mio studio all’aperto. Con i mezzi di cui disponiamo, I Pad, cellulare, era diventato possibile per me contattare le persone anche da fuori, mettermi a leggere, a ricercare su Internet, a scrivere e via dicendo.

Ma sempre, prima del lavoro, veniva la passeggiata meditativa.

Durante queste passeggiate “facevo” diverse cose, che un po’ per volta si sono inserite regolarmente in esse. La visualizzazione di scene o situazioni desiderate. Immaginavo di essere ciò che desideravo e, come un bambino, ci entravo dentro, e provavo i sentimenti del caso, e mi sentivo addosso la bella energia di quelle situazioni. A tratti camminavo concentrandomi sulla camminata, sempre molto lenta, al ritmo del respiro, e svuotavo la mente come vogliono gli orientali. In altri tratti, e a seconda del gusto, “acchiappavo pensieri”. Questa pratica mi piaceva moltissimo. Ho sempre con me un taccuino su cui annotare le idee che mi vengono a cercare. Quelle passeggiate, con l’animo disteso e il cuore desiderante ma calmo, erano momenti ideali per essere visitato da pensieri bellissimi, di quelli che aprono orizzonti e che ti fanno scoprire nuovi itinerari da percorrere. Li annotavo sul taccuino, camminando. Quasi tutti i pensieri che ho postato su Facebook, o nel mio Blog, nascevano in questi momenti. Pensieri che di solito orientavano il lavoro della giornata.

Quando mi mettevo al lavoro, dopo la Passeggiata Meditativa, ero solitamente in quello stato di grazia che favorisce idee e decisioni creative. E mi sentivo bene, molto bene. Era la dimensione della gioia di cui continuo a parlare a proposito della mia pittura e della vita come impresa.

Quelle passeggiate al mattino ora le mie gambe non me le consentono più. E non so per quanto tempo. Mi mancano. Molto. Ma non sono triste. Non lo sono perché esse vivono ancora nel ricordo. E mi accorgo che nei miei piccoli e lenti spostamenti con le stampelle nel mio appartamento di ottanta metri quadri, nell’immaginazione io rivivo un po’ di quelle passeggiate, che riaffiorano nella mente.

Credo che quando sarò guarito e potrò muovermi con una certa sicurezza, quella passeggiata sarà la prima cosa che inserirò nella mia nuova giornata.

Le altre cose, il gioco dell’immaginazione, la cattura di pensieri felici, è possibile farli anche da letto. Mi sono attrezzato. Ho tutto quel che serve a portata di mano.

E si tratta ancora della maggiore e migliore fonte di energia pulita di cui mi ricarico ogni giorno.

 

Categorie: Eugenio Guarini