Categoria : Eugenio Guarini
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Il giorno dopo mi sono svegliato un po’ prima del solito, verso le quattro, e anche questa volta c’era uno spezzone di sogno del mattino che si era attaccato alla mia memoria. Una sola scena: una bambina, sua madre ed io. La bambina voleva parlare a sua madre e io mi facevo carico di insegnarle le parole. Assistevo a quel sorprendente fenomeno dell’apprendimento del linguaggio, dove dei suoni articolati nelle circostanze appropriate, diventano parole significative.
Ancora oggi sono sorpreso dalla capacità delle parole di indicare qualcosa e di comunicarlo. La parola ha un potere incredibile. Ogni volta che batto le parole sulla tastiera sono incantato dalla capacità che esse hanno di provocare una scena sullo schermo interiore e di proiettarvi un’immagine, un evento, uno stato d’animo. Sono rapito dal potere di una frase. La frase scritta che scorre come un nastro nel cervello procurando una visione; o la parola parlata che incanta anche per la sonorità creando tutto intorno una bolla di magia. Quante volte ho invidiato i grandi narratori!
Quando avevo i miei figli piccoli, ho provato il piacere, quasi l’ebbrezza, di inventare per loro le storie prima di dormire, creando quell’atmosfera magica che nasce dopo il “C’era una volta…”.
E che dire delle parole che incontro nella lettura, o che uso anche, senza conoscerne pienamente il significato? Della parola nuova nella lingua straniera? O l’espressione idiomatica in un’altra lingua? Sono rimasto alcuni minuti, ieri, a contemplare il francese “Rien que d’y penser, j’en ai le frisson”, trovato in un testo che sto leggendo e che in italiano diremmo: “Mi vengono i brividi solo a pensarci”? Quante volte ho rimuginato di riprendere in mano il vocabolario e di continuare il lavoro di consultazione che ci chiedevano gli insegnanti della scuola media! E perché, a un certo punto si smette di farlo?
Il mio inconscio, dunque, stava girando ancora sull’argomento della scrittura. Nel sogno della notte precedente B mi diceva, molto seriamente, “C’è bisogno di un uomo che sappia prendersi cura della casa”. Ho preso queste parole per un rimprovero. E ieri, indubbiamente, lo erano. Ma oggi le ravvisavo in una luce diversa, più come un suggerimento, un’indicazione del lavoro da fare. Nel sogno avevo ricevuto in dono una grande villa. Non ero stato io a costruirla, e tanto meno a comprarla: era un dono. E B mi rendeva consapevole che ora avrei dovuto occuparmene con cura. La grande villa era trascurata, nella scena del sogno appariva trasandata. Se il sogno era un messaggio di una mente inconscia, esso andava ben in profondità. Scuoteva tutta l’impalcatura su cui avevo fondato la mia attività artistica – forse la mia stessa personalità – la mia presuntuosa filosofia della spontaneità? Una filosofia che aveva un senso giacché scardinava il manierismo scolastico e raggiungeva la forza istintiva della vitalità, ma poteva rimanere una posizione permanente senza comportare una limitazione? Quell’avvertenza meritava di essere presa in considerazione. La parte avvincente della faccenda – lo sentivo con sufficiente chiarezza – era che c’era qualcosa da scoprire. Ci avrei lavorato durante il giorno.
Il giorno cominciò come al solito con una passeggiata, questa volta nelle campagne di Castellamonte. Il tempo era splendido e i campi d’erba appena falciata, erano tappeti di pace carezzati da un soffio delizioso. Avevo appena parcheggiato l’auto che incontro Miro Gianola, pittore molto noto, mio coscritto, con il quale a gennaio avevo fatto una mostra al Palazzo Martinetti. Stava camminando in maniera un po’ sofferente, puntellandosi con due bastoni, uno per mano. Decido di fare un po’ di strada insieme e di chiacchierare.
Sembrava che Miro non aspettasse altro. Benché non ci
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