Soldati tedeschi cercano uomini.

I soldati tedeschi cercano uomini.

Avevo 5 anni e morivo di paura. Fu uno dei momenti più acuti della storia personale del terrore. Fu la sera in cui un paio di soldati tedeschi, già piuttosto alticci, entrarono in casa minacciosi in cerca di uomini da spedire in Germania nei campi di lavoro e trovarono mia madre e mia nonna a fronteggiarli nel tentativo di liberarsene senza danni. Io assistevo alla scena come paralizzato.

Stavamo nella casa della nonna materna a Monsummano Terme, subito dopo il ponte sulla Candalla, all’inizio del Viale Ferdinando Martini, un bel viale fiancheggiato da grandi tigli.

Monsummano Terme, in provincia di Pistoia, era proprio a ridosso della Linea Gotica, che l’esercito tedesco aveva costruito per frenare l’avanzata degli Alleati che stavano risalendo la penisola, da Carrara a Pesaro e si snodava attraverso l’Appennino.

Mio padre, già ufficiale del Genio Ferrovieri, che dopo l’armistizio dell’8 settembre si era dato alla macchia, se ne stava nascosto in soffitta, vigilato da mia madre e dalla nonna.

Ad accelerare il battito cardiaco di tutti noi, quella sera, fu il bussare violento al portone dell’entrata. Un bel portone in legno massiccio, costruito, come il resto della grande casa, con i proventi del nonno e degli zii emigrati in America fin dal 1901.

Messo in allarme mio padre uscì da una finestra segreta sul retro per andare a disperdersi nei campi, mentre mia madre e mia nonna andavano ad aprire ai soldati tedeschi.

La nonna e mia madre erano persone dotate di un notevole sangue freddo, che ho sempre ammirato durante quegli anni piuttosto drammatici. Ho nella memoria diversi episodi in cui il loro coraggio mi sorprese nell’affrontare la situazione di occupazione.

I soldati con voce prepotente, irrompendo in casa, dicevano che cercavano gli uomini. Le donne, cercando di essere convincenti, asserivano che gli uomini erano al fronte. I soldati, scuotendo la testa e bofonchiando in tedesco, incominciarono a introdursi nella casa. Furono fatti accomodare nella grande sala parallela all’entrata, con l’offerta di un bicchiere di grappa. Una strategia cui la nonna ripiegò con una certa sicurezza, probabilmente accumulata in altre esperienze.

Uno dei militari, accomodandosi su una sedia, piantò la sua baionetta nel bel tavolo di legno che dominava il centro della sala. Il luccichio spaventoso della lama mi sembra di vederlo ancora adesso. Arrivò la grappa e i bicchieri e i soldati sembravano compiaciuti, non accontentandosi della prima mescita.

Probabilmente era stata tutta una sceneggiata recitata per ottenere proprio quello o altre compensazioni. Ma ai miei occhi di bambino terrorizzato parve una situazione piuttosto inquietante, non esiterei a dire “tragica”.

Le due donne, con un savoir faire sempre più sicuro, intrattennero i militari, facendoli parlare e rispondendo alle loro frasi incomprensibili, per un tempo che mi parve interminabile. Finché riuscirono a metterli alla porta.

Tirammo un sospiro di sollievo e incominciammo a preoccuparci della sorte di mio padre. Era riuscito a nascondersi? Si era forse imbattuto in altri militari? Era stato visto da qualcuno? L’attesa fu lunga e inquieta e io non avevo alcuna intenzione di andare a dormire.

A notte fonda, nelle prime ore del mattino, mio padre rientrò sano e salvo e, dopo uno scambio di rassicurazioni, andò a rifugiarsi in soffitta, dov’era il suo nascondiglio.

A me ci volle molto tempo prima che le sensazioni della paura si dileguassero. Ma alla fine fu proprio quello che avvenne. Ero un bambino e vivevo alla giornata. A livello di coscienza dimenticavo in fretta le brutte esperienze. Senza rendermi conto che quegli episodi lasciavano una traccia, da qualche parte, dentro di me, che non era altrettanto facile cancellare.

Categorie: Eugenio Guarini