Lettere da Nosolandia 24

Lettere da Nosolandia 24

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Ho strappato via il cerotto dal braccio e la cosa è comparsa. Un momento d’inquietudine. Saranno gli effetti indesiderati della terapia? Ieri sera ho sbattuto leggermente il braccio destro contro lo spigolo di un libro. Che dico, sbattuto? È stato un contatto pungente. Leggermente pungente. E pochi secondi dopo si è formato un ematoma, piccolo ma deciso, vistoso. Nella mia testa pensieri contrastanti. Il mio ego rassicurante mi diceva che già prima della terapia fenomeni del genere succedevano. Capillari deboli, mi aveva detto mia figlia. Un po’ per volta venivano riassorbiti e via. Questa volta sembrava un po’ diverso, un po’ più marcato, un po’ più gonfio di sangue. Il fato sta che facendo una terapia per il linfoma. È una terapia nuova che si prende per bocca. In un certo senso, meglio della chemio, senza quelle ore passate sotto la flebo. Anche questa nuova terapia ha i suoi effetti collaterali. Uno di questi consiste in sanguinamenti ed ematomi. Da preoccuparsi? Prima di andare a letto ho messo dell’arnica sopra l’ematoma. Coperta da una garza e da un grosso cerotto per tenerla ferma durante la notte. Stamani, al risveglio ho tolto il cerotto e con mia grande sorpresa ho visto che il cerotto stesso, staccandosi, ha provocato un diffuso ematoma sopra l’altro. È bastato lo strappo ad allargare l’ematoma! Da preoccuparmi? Inquietudine. Cerco di tranquillizzarmi. “Non fasciarti la testa prima del tempo”, mi dico.

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(Disegno: “Sguardi nel fondale”)

Mi piace la metafora del vestito a proposito del film mentale che costruiamo mentre cerchiamo di realizzare la nostra storia nel mondo. Perché all’immaginazione si possono applicare tutte le considerazioni che si applicano al vestito.

Il vestito è qualcosa che ci mettiamo addosso per ripararci dal freddo e per muoverci nei traffici umani. E sappiamo che ci sono vestiti che ci aiutano ad agire e a relazionarci, così come ci sono vestiti che non ci calzano bene, facendoci fare magre figure e soprattutto impedendoci di agire. Vestiti la cui immagine allo specchio CI ILLUDE di essere, e via discorrendo. E questo è un criterio ragionevole per valutare.

Ma c’è anche un’altra considerazione: noi non sappiamo quali sono i nostri limiti reali e, se siamo curiosi e intraprendenti, lasciamo che il desiderio ci spinga a tentare la sorte, costruendo per la nostra avventura uno scenario epico. E spesso questo ci aiuta a superare noi stessi. A smettere di essere quello che eravamo e a diventare più grandi. Non per gloriarcene, ma proprio per ESSERE più grandi.

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(Disegno: “Artista di strada”)

Per guarire ci vuole sforzo accurato

Eduardo diceva che il primo requisito per fare l’attore è “a salute”. Ci vuole il fisico.

Questa considerazione vale per qualunque attività uno voglia svolgere professionalmente. Perché la professionalità non si accontenta del talento. Vuole educarlo. E per questa cura ci vuole uno sforzo. E ogni sforzo coinvolge il corpo, altrimenti non è spendersi davvero.

Anche disegnare e scrivere seguono le stesse regole. Tanto esercizio e tanta cura, puntando a fare sempre meglio. Non si tratta di un giochetto banale. Non si tratta di semplice tecnica. Una tecnica che non nasca dal sentimento produce banalità. E un sentimento vero smuove il corpo e lo consuma. Lo brucia.

E a me va bene. Lo approvo. Anche se ora sono malato, assumere questo impegno nei confronti del sentire col corpo, nello spendermi fisicamente, è opportuno. È funzionale con la guarigione.

La guarigione chiede la partecipazione attiva del corpo. Non un corpo che attende passivamente l’effetto dei farmaci. Ma un corpo che persegue durante la cura la trasformazione interiore, per scoprire già dentro di sé la guarigione e andare così incontro all’efficacia dei farmaci.

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(Disegno: “Gettare la rete”)

Un tipo d’azione che mi piace tantissimo?

L’azione ispirata. Tu sei sereno e fiducioso, arriva improvvisamente un’idea promettente. La riconosci, è fantastica. Allora agire subito. Senza esitazione, senza perdere il momento opportuno. Anche se c’è impegno e azione, non ci sarà sforzo. Quell’azione è come un gioco da cui non ci si stancherebbe mai.

È un tipo d’azione del tutto diverso dall’azione decisa a freddo, perché necessaria. Che spesso si svolge masticando ruggine.

L’azione ispirata è quella che l’artista conosce. È la vita stessa dell’artista. Ciò che gli tiene l’anima a mille. È anche quella di chi, nella professione che ha scelto per vocazione, ritrova il senso pieno della sua avventura esistenziale.

È la gioia di esistere.

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La giornata è splendida, il panorama che vedo dal mio balcone est è incantevole. Sono molto felice di questo alloggio che considero la mia isola creativa. Sono felice di quello che faccio. Anche la malattia che sto curando ha degli aspetti veramente piacevoli. Mi consente di dedicare più tempo a pensare, riflettere, leggere, scrivere e disegnare. Rifletto sul senso dei miei disegni. Impossibile vivere senza pensarci. Perché disegno? Che cosa sono i miei disegni? Rimane ancora un mistero il motivo che mi crea questa urgenza di disegnare. Ma sento che è qualcosa che ha una sua funzione, ha un suo perché. A livello di consapevolezza la mia intenzione è che portino gioia, a me e al prossimo. Perché la gioia è un atto di coraggio. E va coltivata ogni giorno. Ecco, il lavoro dei miei disegni è questo, provare a suggerire un modo bello di stare al mondo.

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(Disegno: “Il salto”)

Forse volleyball sulla spiaggia. Comunque un salto. Vincere la gravità per un istante. In nuce il potere di volare. Iniziando con la fantasia. L’immaginazione ci conferma che non siamo totalmente vincolati alla legge di gravità

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(Disegno: “Vaso fiorito”)

 

Quanta gioia in un vaso fiorito! Un sogno, un pensiero invitante, quel respiro largo, l’orizzonte che si estende sconfinato. Quella sottile intensa energia che tiene acceso il corpo e sveglia la mente. Che saltella come un ragazzino curioso. Un gioco che ti fa dimenticare l’ora dei pasti.

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Elogio della stanchezza (da stanco)
Stanchissimo. Ecco come mi sento stasera.
E sento il desiderio di fare un elogio della stanchezza.
Come dire, gli ultimi guizzi, gli ultimi sprazzi, prima di crollare nel sonno.
L’ultima goccia d’energia residua per fare un elogio della stanchezza.
Un elogio della stanchezza, fatto da stanco.
Adesso mi vengono in mente tutte quelle persone che conosco che stanno spremendosi l’anima e il corpo perché vogliono affrontare un cambiamento, perché vogliono essere fedeli ad un proposito, perché vogliono uscire da una situazione che non va più bene…
Hanno avuto un guizzo d’intuizione, hanno trovato il coraggio di decidersi, hanno anche scoperto itinerari nella foresta che promettono di portare là fuori.
E si sono spesi.
Hanno gettato senza riserve tutte le loro energie nell’impresa.
Ma ora, arrivati alla sera, si sentono morti. Con le ossa spezzate. Con nella testa l’immagine di come si sono sentiti fieri e forti e grandi durante il giorno, ma ora, quell’immagine sembra così lontana. Ora sono stanchi morti.
E interrogo questa stanchezza, che certo non mi gratifica, ma che sento amica.
La sento amica. E credo di capire che questa mia stanchezza è felice.
Felice di riconoscere i miei limiti, di mostrarmi la piccola consistenza di tutti i miei paroloni. Felice di accettare la piccola dimensione, puntiforme, nella vita, compresa la mia stessa vita.
E sento che è questa stanchezza che mi avvicina agli altri, perfino più della mia esuberanza e delle forti intuizioni che emergono nei miei pensieri.
Questa stanchezza mi suggerisce che ho bisogno di ricollegarmi alla grande sorgente. Che senza quest’energia originaria non c’è proprio niente che io sia e che possa fare – nonostante i miei più generosi e coraggiosi propositi.
E so che non si tratta di leggere o di pensare o di riflettere o di fare alcunché.
So, e lo accetto, e mi piace, e mi ci abbandono, so che quando uno è stanco ed ha sonno il modo più semplice ed efficace non è nella riflessione, non è nell’analisi, non è nell’indagine, ma semplicemente nel riposarsi, nel dormire.
E penso a quanti – e a me stesso nel passato – si torturano, si scarnificano e si accusano per il semplice fatto d’essere stanchi. E a quanti hanno a fianco un’amante, un marito, dei figli, degli amici, dei colleghi, … che li rimproverano d’essere stanchi. Che li mettono sotto accusa per questo. E li inducono a pensare che sono meno, e magari colpevoli, perché sono stanchi.
E a loro e a me dico: abbracciamo questa stanchezza amica, liberiamoci dal principio di prestazione. Domani saremo leoni. Ma questa sera accettiamo con amore, con gioia, con pacificazione dell’anima, d’essere stanchi.
Affidiamoci, abbandonati, nelle braccia della vita. Occhi chiusi e fiduciosi.
Sul cuscino. Siamo stanchi, per fortuna!

Categorie: Eugenio Guarini