Lettere da Nosolandia 21

Lettere da Nosolandia 21

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La ripetizione può essere un utile strumento per produrre consapevolezza. Quella consapevolezza che aiuta una storia ad essere una storia. La prima storia che m’interessa è la mia. E ora sono in cerca di consapevolezza e ho deciso di usare la scrittura per questo scopo. E con la scrittura ripeto diverse volte quello che è successo, quello che mi succede. Sono sul balcone est, all’ombra del mio ombrellone nuovo. Quello comprato al Briko accompagnato da Chiara. E sembra che dopo il couscous che ho mangiato famelicamente anche l’intestino mi dia pace. Voglio approfittare di questo momento di pace per scrivere e usare la scrittura per me. E la prima cosa che mi viene in mente come obiettivo in questa direzione è ripetere abbastanza quello che è avvenuto in maniera da vederlo come un quadro, o un breve video davanti agli occhi della mente. Forse il quadro fisso e fermo è la metafora migliore. Vorrei vedere un’immagine ferma perché è qualcosa che posso tenere a mente meglio. Magari sono nevrotico in questo bisogno, ma ho l’impressione di perdere la vita nel nulla della dimenticanza se non faccio qualcosa.

Anche una storia che si ricordi bene può servire come un’immagine. Una storia aggancia un passaggio con l’altro e questo serve a suscitare la memoria.

Dunque uso la scrittura per diventare consapevole di ciò che vivo.

E stamani mi sono svegliato con questa decisione.

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È chiaro che la consapevolezza è consapevolezza di qualcosa. Posso essere consapevole, posso diventare consapevole, del balcone al sole, del rumore del torrente, del canto degli uccelli, del soffio del vento, dell’ombrellone verde di Margherita, del ciliegio di Tomaino e di quello di Taramino, della meravigliosa atmosfera di questa prima giornata di sole dopo tanto tempo e di tante cose come le persiane scrostate del mio alloggio e dei pensieri che mi suscitano a proposito del mio futuro, sempre che abbia un futuro, perché queste persiane rimarranno così probabilmente anche dopo la mia morte e i miei figli si troveranno a fare i conti con l’amministratore del condominio. Ma lasciamo perdere questi pensieri. Quello che volevo alla fine dire è che la consapevolezza diventa una storia se io faccio qualcosa e la consapevolezza è consapevolezza di ciò che ho fatto e magari di ciò che sto facendo e che intendo fare. Insomma non basta l’idea della consapevolezza per avere una storia mia, per avere la mia storia, ci vuole che faccia davvero qualcosa e che questo qualcosa abbia un suo valore e sia interessante, almeno per me.

È chiaro che in questo momento, in cui il successo mondano cala le sue quotazioni, è la salute, quella del corpo, quella dell’anima, la mia salute nella sua globalità, l’obiettivo per cui vale la pena di lavorare, lottare, resistere, intraprendere, inventare.

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(Disegno: “Il cavaliere nero”)

Bisogna che lo riconosca. In questi giorni mi è difficile considerare la malattia come una semplice variante della vita. Quando tento di farlo sicuramente do ascolto al mio istinto vitale, al desiderio di guarigione, ma anche a un’urgenza particolare, diversa, in qualche modo più inquietante che ho bisogno di guardare in faccia senza veli. Un’urgenza che nasce da un sentimento più travolgente, che non posso continuare a ignorare. Si tratta di qualcosa che rende la malattia un evento lacerante nel filo conduttore della mia storia personale.

Devo ammetterlo, la malattia è stata l’irruzione sanguigna, turbolenta, spietata, della morte nella mia coscienza. L’urgenza di cui tento di parlare non nasce da una semplice considerazione teorica dell’idea della morte. Nasce da un colpo crudele dei sui artigli sulla carne di un corpo che fino a ieri (l’anno scorso) era stato sempre capace di regalarmi una potente, sorprendente e fiduciosa energia vitale. Quel tipo di energia vitale che ti fa credere all’immortalità. La malattia mi sta urlando negli orecchi con voce sgradevole che il mio tempo invece è contato. E questo provoca uno sconvolgimento più feroce di tutte le sfide creative della mia meravigliosa e avvincente avventura nella vita.

So che ogni malato di tumore prova o ha provato questa sensazione. Io la provo mentre, seduto sul balcone est, durante la prima giornata di sole dopo tanto tempo, cerco spazio nel possibile per tutti i sogni che ancora rimangono in parcheggio nel fondale misterioso dell’anima. E mi ci vuole un atto ancora più folle e bastardo di fiducia per rimettermi al lavoro. E per ritrovare energie nuove da risorse che ciò che si mostra come la crudele insensibilità della vita sembra volermi negare.

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Ore 16:30 Sparone Canavese. Finalmente mi decido. Questa è la mia prima uscita a Sparone col camper in regola.

I fatti di oggi pomeriggio sono importanti. Sono importanti perché rappresentano un tentativo, abbastanza riuscito, di sganciarmi dalla prigione dell’alloggio e dalla bolla dei pensieri che scavano la fossa, di uscire all’aperto, riconquistando parzialmente un modello di comportamento più attivo che ha caratterizzato tanta parte della mia avventura.

Sono uscito a riordinare il camper, mi sono fatto aiutare tempestivamente da Jacopo a chiudere la valvola dell’acqua nella caldaia, perché non riesco ancora a entrare nel gavone, sono andato a caricare acqua alla area camper di Rivarolo.

Poi sono venuto qui, a Sparone, che è stata meta di tante mie uscite di lavoro in passato. Quasi in un’altra vita. L’intestino non mi ha dato particolarmente noia. Ho fatto un po’ di pulizia dentro l’abitacolo del camper, ho messo la spazzatura dentro l’apposito cassonetto dei giardini. Ho ancora dei cartoni da gettare. Ho anche il cavalletto e i cartoni telati da ritirare. Lo farò nelle prossime mosse. Ora, qui, l’idea della morte non è così cattiva. Quell’idea si allarga soprattutto se ci pensi. E io voglio pensarci quanto basta da affrontarla. Non voglio più avere paura dei problemi che mi hanno sfidato, di cui ho avuto paura in passato, e che ancora probabilmente rifiuto di prendere in considerazione. Ora sono cambiato, voglio fare i conti con questi problemi e parlarne, tra me e me, nella mia scrittura.

Se volessi creare un personaggio di un romanzo che mi assomigliasse cercherei di disegnare un vecchio, spasmodicamente innamorato della vita, con una voglia di vita incredibilmente urgente, che si accorge che sta invecchiando e che non potrà sfuggire alla morte ancora per molto tempo. Un vecchio che ha cercato la maturazione di sé secondo una via sua, originale, indipendente, e che ha cercato anche il successo mondano, senza riuscirci granché o forse riuscendoci nella maniera più saggia, anche se lui non lo sa ancora. E di sicuro non sa ancora molte cose che lo riguardano, perché si rende conto di non conoscersi abbastanza. E si accorge che tanti episodi del suo passato sono lì, nel suo corpo e nella sua anima come cicatrici ancora doloranti, che gli viene voglia di riaprire, di lasciar sanguinare e spurgare quanto basta, nella speranza che possano guarire, o diventare punti di forza della sua energia vitale. Stupidaggini, assurdi, se pensa che ha quasi 80 anni. Ma stupidaggini che spalancano porte sulla vita.

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(Disegno: “Tramonto romantico”).

Il pensiero che mi commuove di più stasera, scaturito forse dai lavorii di questi giorni, è che benché sappiamo che moriamo, benché sappiamo che ci sarà un termine a questa urgenza di fare, di vivere, di cercare, di realizzare, benché sappiamo tutto questo, la nostra voglia di vita piena, non sto dicendo il semplice istinto di sopravvivenza, che è una potenza innegabile della natura, no, sto parlando della voglia di vita, di pienezza di vita, di felicità incredibile e interminabile, di azione, di costruzione, di creazione, di lasciare segni, di lasciare eredità di valore e significato, tutto questo non demorde, e rinasce ogni volta con una forza resa ancora più tenace dalle prove e dai fallimenti. E che ci serviamo d’immaginazione e di narrazioni per affrontare la sfida e l’avventura che hanno la sola radice nel desiderio che ci abita e che sfida non solo le difficoltà e gli intoppi, ma la stessa falce del cavaliere nero.

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(Disegno: “Can Can”)

“I’ve never had an overall strategy or a plan, you know? I’ve just always wanted to show off.” (Leonard Cohen).

È evidente che coloro che sono in grado di organizzare le loro risorse secondo un piano ben congeniato hanno costruito una macchina capace di ottenere risultati quantificabili e remunerativi. Sempre che sappiano essere intelligenti e perseveranti. Questo non mi è mai riuscito per la convinzione vagamente romantica che quel modo di vivere mi avrebbe fatto perdere tutta una polpa gustosa della vita, piena di emozione e d’intensità soggettive, senza le quali mi sarebbe sembrato di vivere solo di scheletro. Ovviamente tutto questo potrebbe essere soltanto la razionalizzazione di una sorta di pigrizia esistenziale, ma non voglio dar credito a questo sospetto. Preferisco immaginare di aver tracciato per me una via originale all’esistenza, capace di venire incontro ai miei sogni di lunga data. Parlo di sogni più che di progetti, perché la vaghezza del sogno mi dà più speranza della precisione del progetto. Lo so benissimo che sono piuttosto lontano dal conoscermi a fondo, ma proprio questa consapevole ignoranza apre una regione immensa per l’esplorazione avventurosa.

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(Disegno: “Pallavolo”)

A dire il vero non saprei come sopportare la vita se non trovassi il tempo per leggere libri di filosofia, romanzi e saggi che mi facciano pensare, che mi tengano in moto sia il cervello che il cuore; senza avere giornate libere da impegni per andare a passeggio nei boschi o in montagna e respirare l’aria fresca dell’aperto di prima mattina, osservando un paesaggio dall’alto. Se non trovassi il tempo per scambiare comunicazioni emotive con gente che come me si emoziona di fronte agli eventi e aspira a conoscere l’amore un po’ più a fondo di quanto sia successo finora. Come potrei lavorare per un’azienda in cui per tante ore al giorno, alla settimana, al mese, all’anno… dovessi occuparmi soltanto di implementare le mie performance per alzare i grafici dei profitti degli azionisti? Come potrei reggere il peso dell’esistenza se dovessi considerare okei soltanto quelle attività che portano a risultati quantificabili in termini di prezzo? Ma non è il caso di denunciare come fattore altamente inquinante, pari almeno al riscaldamento globale, questa visione unidimensionale della nostra vita?

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(Disegno: “Sherazade”)

L’incanto che mantiene la nostra vita in quelle che Spinoza chiama “passioni gioiose” è legato spesso a quel filo conduttore arguto e brillante che lega l’una alle altre le vicende meravigliose della nostra quotidianità. Noi siamo per noi stessi l’arguta Sherazade.

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(Disegno: “Di là dal fiume”)

Mi piace guardare di là dal fiume. Non sono uno che pensa che tutto sia possibile. Ma nemmeno uno cui piaccia fissare limiti a priori irremovibili. Immagino che sia interessante lanciare i confini un pochino fuori casa, per esplorare sulla base delle proprie energie quanto si può avanzare. Ma senza questa frenesia di performance che oggi viene tanto predicata. E che trasforma qualsiasi esperienza gratuita di vita in un mezzo per guarire dalle “opinioni limitanti” e dal “disagio”. Penso, per esempio, che l’Arte terapia può anche andare bene in certe situazioni, ma mi irrita che l’arte, al posto di un’esperienza vitale gradevole in sé e capace di stabilire relazioni tra affini, venga trasformata in strumento e mezzo terapeutico.

Benché io viva un’esperienza di malattia, non mi piace l’idea dilagante che siamo tutti così malati da aver bisogno di questa pletora di terapie che proliferano giorno dopo giorno.

E se facessimo queste cose, la musica, la pittura, la danza, la scrittura… perché sono espressione di vita bellissima e gratificante, perché consentono di godere della vita, invece che per guarire? Ah, che respiro!

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(Disegno: “Il cavaliere nero”)

Io credo che noi che abbiamo il cancro dobbiamo usare le energie che riusciamo ancora ad avere per combattere questa malattia, accettando che questa è la nostra situazione e sfuggendo alla tentazione di lasciarci portare alla deriva. Credo che dobbiamo affrontare la terapia medica, non lasciandoci deprimere dal trattamento spesso poco sensibile alla nostra soggettività che possiamo trovare negli ospedali. Ma quello che le medicine e spesso i medici non possono fare, quel tenere alta la guardia del nostro atteggiamento e del nostro stato d’animo, quello spetta a noi. E qui ci vuole coraggio e determinazione. Nessun piagnisteo inutile. Nessun rancore deprimente. Ci vuole quell’amore appassionato per la vita, che forse proprio grazie alla comparsa della morte nei nostri pensieri viene ritrovato e potenziato. È quella gioia che deriva dal fatto di sentire che la vita è bella anche quando è terribile, che essere nati è il dono più grande e inverosimile che abbiamo avuto. La morte non mi fa paura, anche se suscita una grande nostalgia, una tristezza immensa, perché la morte è un’ingiustizia per chi è nato. Ma la morte vuol dire che finché sono vivo, e semmai le sfuggirò anche questa volta, vivrò con maggiore intensità e passione ogni istante che mi sarà concesso. E ai nostri compagni malati dobbiamo, se possiamo, regalare un esempio di questo atteggiamento vitale, sano, appassionato, di questo amore per la vita.

 

Categorie: Eugenio Guarini