Lettere da Nosolandia 17

 

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(“Le colline qua davanti”)

Mi piace al risveglio guardare le colline dalla finestra est. Mi alzo prima del sole, è nella mia natura. Ma tengo d’occhio, ogni tanto, l’evolversi della situazione. Voglio leggere i primi segnali del giorno, cogliere l’alba e il sorgere del sole. Quasi un saluto. Il riconoscimento di una reciproca appartenenza. O forse, semplicemente una preghiera.

Adesso la temperatura è mite al mattino. Posso tenere la finestra aperta ed essere raggiunto più facilmente dal canto degli uccelli, dal brontolio del torrente, che scorre a poche centinaia di metri là davanti. E anche dai piccoli insetti vagabondi che si precipitano dentro, incantati dalla luce.

E mi dico: “Ecco, un altro giorno. E io sono qui, presente e desideroso. E tutto è così bello. E durerà poco ancora. Ma questo giorno può essere infinito, pieno di bellezza, qui, per me”.

E le mie mani cominciano immediatamente  a cercare uno scopo al loro movimento. E il desiderio, a disegnare itinerari per la sua sete.

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(“Eros”)

Amo il pensiero caldo, infiammato, erotico.

E quella follia che è tipica degli innamorati, pronti ad avventurarsi e a sfidare ogni ostacolo pur di raggiungere l’oggetto del desiderio. Che è sempre la Bellezza. E amo l’amore dei poveri e degli inquieti. Di quelli che sono costretti dalla disperazione a trovare vie alternative, a ignorare le regole del gioco. L’arte scaturisce da loro come acqua di sorgente, selvatica e purissima.

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(“Rocca con castello”)

Sono qui sul balcone. Ho davanti a me lo scenario delle colline moreniche del piccolo anfiteatro. Torre, Agliè, Cuceglio, Orio, Barone.
MI è sempre piaciuto guardare le cose da un punto d’osservazione più alto. Da Andrate, per esempio, che è un balcone, a circa 900 metri sul livello del mare, sull’inizio occidentale della Pianura Padana. O dal Colle del Lupo, che si affaccia sullo stesso scenario da mille e trecento metri.
Quando guardi le cose dall’alto, si crea una piacevole distanza. Avverti com’è bello e utile sollevare lo sguardo da ciò che hai sotto il naso, allargare l’orizzonte.
Con l’esperienza della malattia ho avvertito un effetto analogo, come se anche un handicap consentisse di guardare le cose dall’alto, con una distanza più favorevole, per dare dimensioni più appropriate al valore delle cose e delle esperienze che abitano il tuo contesto.

Ho capito che un handicap può dare vita realmente a un grande vantaggio.
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(Il disegno: “Arrivo all’isola”)

Noi arriveremo all’isola del tesoro. Abbiamo il vento in poppa. Passeremo attraverso gli scogli, eviteremo le tempeste o le attraverseremo con determinazione bastarda. Abbiamo il coraggio di chi ha evitato la morte più volte. E ci siamo induriti nelle difficoltà dell’infanzia.

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(“Anche questo è la mia storia”, acrilico su tela, cm 100×100)

Michele, che per alcuni anni è stato mio collega nell’insegnamento di Filosofia al Liceo Aldo Moro di Rivarolo Canavese diceva di me: “Sei una forza della natura”. Io lo andavo a trovare nella sua dacia, e saltavo il cancello a grandi bracciate, sorprendendo sua figlia e i suoi nipoti. Allora ero in grado di scavalcare qualsiasi cosa. Avevo braccia possenti, ero agile come una scimmia.

Michele era ateo e le sue scelte di vita erano state audaci e fori dalle regole. La vera regola della sua vita era la logica. Su questo noi suonavamo musiche diverse – cosa che non impediva la reciproca stima e la condivisione di pensieri e visioni. A un esame di maturità, durante il quale avevo scoperto la corruzione di un presidente di commissione, che aveva minacciato cli insegnanti di ritorsioni sulla carriera nel caso non avessero promosso un alunno immeritevole, io avevo assunto l’atteggiamento “alla John Wayne” (come diceva Michele), registrando segretamente la conversazione durante la quale il Presidente della commissione aveva ammesso di essere stato comprato, per poi sbandierare il registratore come una pistola e chiedendo le dimissioni del personaggio. Chiedevo ai professori minacciati di denunciare l’accaduto e di ribellarsi. Michele li convinse a un comportamento più cedevole, in vista della loro carriera, dato che nell’operazione si era introdotto un personaggio potente del Provveditorato. La mia azione alla “John Wayne” non ebbe successo, il Presidente corrotto non dette le dimissioni, gli insegnanti promossero lo studente in questione e io non detti alla stampa la registrazione dove il presidente corrotto ammetteva il fatto. Le acque si richiusero sulla scia che la nave aveva aperto. La “forza della natura” aveva perso di fronte a una logica più rilassata capace di tenere conto del peso delle eventuali conseguenze sulla carriera di giovani insegnanti non ancora di ruolo. La logica di Michele era probabilmente più realista nella comprensione di come funziona il sistema. Io ne dedussi che il sistema non era un luogo dove avrei potuto vivere felice. Nel corso di alcuni anni, dopo aver maturato gli anni di servizio per una pensione minima, anche sotto l’effetto di episodi simili, decisi di andarmene per iniziare un’altra vita. Sarebbe stata una vita indipendente, senza un sistema che imponesse le sue regole al mio comportamento. Sarebbe stata la vita d’artista, dove avrei fatto quello che mi dettava dentro la mia spinta interiore, ignorando le regole del sistema (perché anche il mondo dell’arte ha le sue regole tradizionali), a mio rischio e pericolo. E avrei potuto farlo perché non avrei avuto nessuno a soffiarmi sul collo. Avrei convogliato quell’energia che Michele chiamava “forza della natura” nella produzione di quadri. Opere che sarebbero uscite solo dalla mia ispirazione e dalla mia spregiudicata maniera di dipingere. Era la libertà di esprimersi e di comunicare ciò che stava alla base della mia vita d’artista. E sono stato fortunato: in vent’anni ho messo al mondo almeno due mila opere e quasi millesettecento animano le abitazioni e gli ambienti di lavoro di tante persone là fuori, nel mondo. Ogni volta che vedo l’immagine di una mia opera sento la fierezza di questa storia. La fierezza della libertà creativa, del fare quello che ami senza inibizioni.

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(“Domenica in spiaggia”)

La storia più tosta nei miei trent’anni d’insegnamento di Filosofia nei Licei avvenne nel 1981. Ero stanco dei modi in cui la maggior parte degli insegnanti trattava gli studenti: mancanza di rispetto, autoritarismo gratuito e scarico di ogni responsabilità su di loro per gli esiti negativi. Organizzai senza chiedere nessuna autorizzazione un’indagine d’opinione: gli studenti davano un voto, da uno a tre, ai loro insegnanti, sulle voci; competenza, capacità didattica, metodi di valutazione e rapporti umani. Gli studenti parteciparono con entusiasmo. Ne veniva fuori che il punto dolente risiedeva proprio nei rapporti umani. Il corpo docente avrebbe posto il problema sul tavolo? Figuriamoci…

Un sabato arrivarono i carabinieri con quello che oggi si chiama un avviso di garanzia. Il pretore locale, per il quale l’autorità discende direttamente da Dio, mi metteva sotto indagine sulla base di un articolo a fisarmonica del codice penale, secondo il quale avrei attentato alla buona fama dei miei colleghi. L’articolo era di sua competenza il che voleva dire che lui conduceva l’indagine e lui mi avrebbe giudicato durante il processo.

Avendo capito che mi aveva messo in una trappola, mi sono buttato su giornali locali. Facevo le mie ragioni con comunicati stampa redatti alle sei del mattino e consegnati a mano sotto le porte dei giornalisti, prima di andare a far lezione. Gli studenti di tutto il liceo, in una assemblea decisero che “Se Guarini è colpevole, lo siamo anche noi, per aver accettato di buon grado la proposta dell’indagine” e organizzarono una manifestazione all’interno del Liceo “Un fiore per Guarini”, con tanto di mimose in mano. L’opinione pubblica teneva per me e il pretore decise di interrogarmi di nuovo, dopodiché, aggravati i capi d’imputazione mi inviò alla Procura della Repubblica di Torino. Fui interrogato da un giudice imparziale e dopo mezz’ora ero fuori perché il reato non sussiste.

Una vicenda con cui conquistai la stima del paese. Dieci anni dopo però lasciai la scuola per fare l’artista. Non si può lavorare a lungo se corri il rischio di andare sotto processo ad ogni decisione che prendi.

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(Il quadro: “Addestratore di cavalli”)

Quando ho deciso di fare il pittore ho deciso di farlo sul serio. Non volevo un hobby. È legittimo avere degli hobby, ma io volevo un’avventura esistenziale, volevo scoprire un modo di essere nuovo. Sapevo che avrei dipinto, che avrei imparato lavorando su ciò che mi veniva bene da sé. Non volevo saperne di scuole e per diversi anni non andai a visitare nessuna mostra per evitare di essere castrato dalla bravura di chi era già avanti e affermato. Volevo trovare il mio linguaggio, o la va o la spacca.
Ero anche sospinto dalla necessità. La mia pensione da insegnate era veramente bassa e metà se ne andava nell’affitto e nelle spese condominiali. Comunque c’era qualcosa. Di fame non sarei morto. Ma acquistare tele, colori e materiali apriva un grosso punto interrogativo. Decisi che la necessità doveva essere un fattore stimolante e non castrante. Dovevo darmi da fare con più caparbietà e soprattutto dovevo inventare strategie alternative rispetto a quelle tradizionali, generalmente molto costose (Gallerie, mercante, cataloghi, curriculum…).
In quell’epoca, mi ero accorto, i locali cercavano artisti che esponessero sulle loro mura. I locali sono una situazione estremamente creativa. Devono inventarne una più del diavolo per rinnovare il look e attirare la clientela. La concorrenza è feroce. Mi ero reso conto che nei locali si apriva un vasto territorio espositivo, adeguato alla mia lussureggiante produzione, e si trattava di un ambiente espositivo a costo zero. Mi ci sono buttato con slancio.
All’inizio ero io a cercare i locali, in Torino, in Liguria, in Valle d’Aosta… dove potevo arrivare in giornata con la mia Saxo rossa carica di quadri. Poi si diffuse il passaparola e venivo invitato. Allora ho esposto a Milano, a Vicenza, a Padova, a Quarto d’Altino, a Bologna, lungo la costa adriatica, in Umbria e in Toscana, giù fino a Roma. Negli ultimi anni mi ero procurato un camper, che rendeva tutto più facile ed economico.
Mi sono fatto tanti amici dappertutto, perché la gente fiutava il mio slancio e la sincerità della mia passione. La gente tendeva ad aiutarmi, a sostenermi.
E non saltavo un giorno senza fermarmi a riflettere sul mio comportamento, sulle mie scelte. Non passava giorno che non mi facessi venire una nuova idea per tenere alto il morale e per tentare una strada nuova e promettente. E nasceva così, dalla mia spontaneità di per sé irrequieta e anarchica, una mia disciplina, che si affinava giorno dopo giorno. E che consentiva di viaggiare sempre nella stessa direzione, appoggiando i piedi sulle pietre di guado che trovavo sul mio sentiero.

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(disegno: “Dal mio balcone vedo il mare”)

Da non crederci. Ma questo è possibile. Dal mio balcone vedo il mare! Qui non manca nulla rispetto alle Maldive. Ho l’ombra fresca e la ventilazione, il tavolo e l’acqua ghiacciata con il succo di limone. Una montagna di libri e una miniera di fantasia. Il punto è che mi voglio bene e so che trattare le mie risorse personali, della mente e del corpo, con grande cura è un presupposto decisivo al pari, e probabilmente più, del trattare con la massima cura il rapporto con il mondo. La mia avventura d’artista mi ha insegnato questo principio che ho impresso nella zucca con un tatuaggio a fuoco.

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