Lettere da Nosolandia 14 (illustrata da disegni originali)
Lettere da Nosolandia 14
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Ti piace leggere?
Il pensiero critico autonomo e personale è una finestra dalla quale guardiamo il mondo. Quello che guardiamo sarà sempre il cibo di cui nutriamo la nostra vitalità. O l’avveleniamo.
Io dico spesso che amo molto leggere. L’espressione non è precisa: amo molto leggere libri che mi piacciono e che mi danno qualcosa, libri che nutrono la mia voglia di vivere, la mia creatività, l’immaginazione pragmatica per affrontare l’esistenza e le sfide che comporta, compresa quella di scoprire le opportunità delle circostanze che capitano.
Ora devo fare una confessione. Ho speso un vero patrimonio per acquistare tanti libri promossi dalla pubblicità come dei must e devo confessare che appena lette le prime pagine mi sono reso conto che non ci avrei capito molto e soprattutto non ci avrei tratto niente di buono e di utile per me. E allora? Devo continuare la fatica di leggere solo perché la critica letteraria (e la pubblicità promossa dalla casa editrice) sostiene che si tratta di un capolavoro? Assolutamente no. E nemmeno il fatto di aver sborsato dei quattrini per questi libri deve rappresentare un obbligo a leggerli.
Qui bisogna che entri in funzione il proprio criterio personale. Non è neanche detto che se voglio diventare uno scrittore, voglio dire un bravo scrittore e anche un grande scrittore, io debba digerirmi certi tomazzi di mille pagine dove è così difficile orientarsi per afferrare qualcosa solo perché una qualche autorità letteraria lo richiede. Ci ho messo del tempo, ma alla fine sono riuscito a dire addio a “Infinite Jest” di David Foster Wallace, di più di mille duecentocinquanta pagine e ventisette euro di costo. E credo che non mi avventurerò mai nella lettura dell’Ulisse di Joyce, anche se non l’ho mai assaggiato. Ho perfino seri dubbi di incontrare un giorno la “Recherche” di Proust, anche se Alain de Botton ha scritto un libro carinissimo sui vantaggi che se ne può trarre.
Ma l’esercizio del mio criterio personale di scelta non si ferma qui. Ci sono anche i libri che si leggono facilmente e si propongono di mettere in chiaro “in maniera straordinariamente efficace” la perversione, il male, la tragedia, la disperazione, la follia, e ogni possibile bruttura della società. Beh, di fronte a tutto questo cibo culturale, solitamente pubblicizzato come l’ultimo caso editoriale con milioni di copie vendute, il mio stomaco si ritrae e se ho fatto l’errore di acquistare compulsivamente qualcosa del genere, non appena ne sentirò il sapore e gli effetti sulla mia fragile anima, li chiuderò e metterò da parte senza esitazione.
Destinando ad altri tempi o ad altri usi tali volumi.
Uno degli usi creativi di tali libri che mi viene in mente è quello inventato da Austin Kleon (che di sicuro non l’ha inventato per gli stessi motivi) che lui chiama “Newspaper Blackout” e che consiste nell’oscurare con un pennarello nero tutte le parole che non servono, dopo averne estratte qualcuna per comporre una frase interessante.
Durante una malattia grave ci si rende conto che il tempo è prezioso e conviene utilizzarlo bene secondo un criterio personale. E che vale la pena di sviluppare questa benedetta dote che potenzialmente tutti abbiamo, di capire ciò che ci fa bene e ciò che ci fa male.
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Una casa, dentro e fuori.
Mattinata di torpore. Ho pranzato con gli avanzi della cena di ieri. Ho fatto una profonda dormita dopo. Oggi mi sento pesante. E un sapore amaro ha colonizzato la mia bocca. Veronica me l’ha ricordato: non tutti i giorni sono eguali. Se oggi ti stanchi, domani la paghi. Lo so. Eppure, all’inizio non riesco ad accettarlo. Vorrei che la guarigione fosse un’interrotta curva ascensionale. Stento ad accettare che non sia così. Poi, dopo un po’ di smarrimento nel territorio dello sconforto, mi rendo conto che lo devo accettare. E mi predispongo a farlo un po’ per volta e a sfruttare lo spazio di senso che la situazione mi riserva. Ad ogni buon conto, ora, cerco di stare tutto qui, in questo atto di scrivere, ascoltando quest’amaro in bocca.
Vedere le parole uscire dal gesto delle mani mi dà conforto. Mi sembra di fare qualcosa. Mi solleva dal torpore della passività. Potrei concentrarmi sul respiro e chiudere gli occhi, ma preferisco fare qualcosa, qualcosa di veramente piccolo e socialmente insignificante. Non per me, tuttavia, in questo momento.
Fuori, il tempo si sta guastando, secondo le previsioni. Domani potrei andare all’Ospedale con la pioggia. Mi turba l’appuntamento di domani. Ormai non dormo più la notte. Lo faccio di mattina. Sarò uno straccio. Ho l’appuntamento alle dieci e mezzo. Non importa. Domani, probabilmente, sarà un giorno sì.
Poi le cose passano. La corrente scorre. Viene a trovarmi mio figlio Giulio con la sua compagna. Hanno i loro problemi. Se ne parla un po’. È così, è sempre così. Andiamo a vanti interrogandoci in continuazione. E perché non farlo con curiosità? Con gioia perfino? Anche con un po’ di autoironia? Possiamo allontanarci un poco e guardarci da qualche metro di altezza. Quando se ne vanno, mi accorgo che tutto è passato. Sono di nuovo a cavallo. Le cose hanno riacquistato il loro sapore.
Ieri è stata una giornata splendida. Ero uscito per la mia prima passeggiata col deambulatore. Rientrato, mi sono seduto sul balcone ovest e ho visto in una luce nuova e sorprendente il paesaggio in cui sono collocato. Una casa non è solo il dentro. Una casa è per una gran parte il fuori, quello che si vede dalle sue finestre. Mi viene da pensare che è la stessa cosa per l’esistenza di una persona: non è solo quello che fa per sé, ma è anche il contesto più grande in cui la sua vicenda personale si iscrive.
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Pensieri terribili.
Io ho bisogno di conoscere. La prima cosa che conosco è la mia ignoranza. Che è come una grande fame. L’ignoranza è una grande fame di conoscenza. Vorrei conoscere cos’è questa vita per me, vorrei conoscere il mondo e cos’è questa vita per noi umani. Vorrei conoscere cosa abbiamo imparato per alimentare la nostra vitalità di persone, di Io consapevoli e desideranti, in vista del fatto che moriremo. Perché mi sembra chiaro, oltre i tanti casi in cui sembra che come umani abbiamo desiderato la morte, nell’insieme abbiamo imparato a vivere e ad alimentare e sostenere il nostro desiderio di vita, malgrado sapessimo che alla lunga saremo tutti morti. La vita qui è una lotta contro la morte. La medicina è una lotta della vita contro la morte. La tecnologia è un aiuto al nostro desiderio di vita.
La malattia in me è un pro memoria del fatto che tra non molto morirò. Ma non si sa ancora quando. Potrebbe essere vicino o potrebbe essere lontano. Ma ora sono vivo ed è molto vivo in me il desiderio di vivere e il desiderio di conoscere.
Ricordo di aver sentito sempre questo desiderio di conoscere. Di cercare e di capire. Ma la necessità di guadagnarsi da vivere ti distrae da queste domande terribili. Qualcuno pensa per fortuna. Perché a scavare in queste domande ci si può perdere. Ma chissà? La vita appare talmente misteriosa alla mia ignoranza che non me la sento di emettere sentenze definitive in proposito. Diciamo che anch’io mi sono lasciato distrarre dalla necessità di lavorare per guadagnarmi da vivere. Ma dopo che questo si è realizzato, queste domande terribili sono ritornate a visitarmi. E ora che sono malato, abitano con me, nel mio appartamento.
E mi rendo conto che per vivere, in relazione al fatto che sappiamo che dobbiamo morire, ci raccontiamo storie, ci creiamo illusioni, creiamo i nostri film mentali, perché abbiamo capito che se riusciamo a crederci, viviamo meglio e la nostra vita sembra avere un senso.
Ma ora, dopo l’Illuminismo e l’avanzata della ragione critica, noi sappiamo che quelle storie sono illusioni. Tuttavia abbiamo capito empiricamente che quelle illusioni ci aiutano a vivere.
Tra lasciare che il pensiero della morte inibisca ogni voglia di vivere, perché tanto tutto è inutile, e la prospettiva che le mie illusioni (in cui io riesca a credere) mi danno un senso e una speranza, io so che, prima ancora del ragionamento con cui l’accetto, l’ho accolto per una sorta d’istinto di vita. Ammiro il ragionamento che argomenta con eleganza e necessità, ma tra tutti i ragionamenti ammiro la bellezza del ragionamento che congettura, restando consapevole del carattere congetturale del ragionamento stesso. Il ragionamento che su questi temi conserva il ricordo vivo della sua ignoranza. Questo tipo di ragionamento non chiude il discorso sulla morte.
Qualcuno sostiene che, sotto la vita dell’Io consapevole e desiderante, progettante, protagonista della sua storia, c’è un Soggetto più potente, la Specie, che si serve dell’Io illudendolo finché la sua vitalità è funzionale alla Volontà di Vivere, abbandonandolo poi, nella disillusione, al suo destino di morte, quando non serva più.
È possibile che questa teoria sia piuttosto plausibile. La pulsione sessuale, l’aggressività e le illusioni nascono da un fondale più oscuro della coscienza razionale. E hanno un potere immenso, che travalica la ragione. Ma sostengo la decisione dell’Io di emergere da questo mondo inconscio. E vedo la civiltà costruita nel corso dei millenni come il risultato di un’alleanza tra gli Io che ha creato un secondo mondo rispetto alla Natura.
Oggi forse ci rendiamo conto che non possiamo lavorare contro la Natura. E sicuramente ci accingeremo a sostenere i nostri progetti futuri stabilendo un nuovo patto con la Natura. Ma questo vorrà dire che crediamo fino alla fine ai desideri dell’Io. Non rimpiango i tempi in cui l’Io non esisteva e gli individui erano solo costituiti dalle relazioni all’interno del gruppo, fosse pure la Polis Greca. Io vedo nella nascita dell’Io e del progetto umano volto a realizzare i sogni dell’Io come un processo che ha senso e valore. E penso alle relazioni future come molto diverse da quelle dell’epoca in cui prima veniva l’insieme e soltanto dopo, e all’interno dell’Insieme, gli individui. L’insieme del futuro sarà di natura diversa.
Ragion per cui, anche se non me la sento di prendere alla lettera i Vangeli, apprezzo di più il “Non morirete del Cristianesimo”, della soggezione all’Ananke dei Greci. E preferisco scommettere sulla la follia che dalla ragione “smargina fuori” piuttosto che a quella che si ferma prima di attraversarla.
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Risveglio
Quale dolcezza svegliarsi per tempo
e ritrovare i vecchi compagni del cuore,
pensieri dorati che saltellano
nello sfrigolio dell’evo.
E del vento godere il soffio vitale,
che al timone invita e agli strumenti,
affinché righi la rotta fortunata
la nave che la sorte ti ha elargito.
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Voglio ragionare da innamorato, semmai si possa dire che gli innamorati ragionino. Gli innamorati saltano e danzano. Fanno scarabocchi sui muri e scolpiscono il legno a colpi d’intuizione. Improvvisano sullo strumento musicale e abbracciano le vecchie signore che incontrano lungo i viali. Frugano tra i capelli delle ragazze e scavano tunnel nella sabbia con i bambini al parco giochi. Le mie argomentazioni saranno in versi e mi divertirò a rincorrere i fagiani con le rime.
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Lavoro come un innamorato che ha in testa la giovane amata e la sta cercando, passando dal tremore e timore di non trovarla, di averla persa, e l’eccitazione che lo rianima e lo guida non appena ne avverte un segnale, una voce, un grido, oltre la siepe, nel labirinto.
E poi l’esultanza smodata dell’abbraccio quando la trova. E le parole balbettate, mentre le guance arrossiscono.
E la fanciulla che sorride, gioendo del suo potere.
Categorie: Eugenio Guarini