Lettere da Nosolandia 4

Lettere da Nosolandia 5

(Nosos, in greco: Malattia. Da cui Nosolandia: la Terra della Malattia)

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E no, per la miseria! Troppe ore passate a letto. Troppo intrattenimento passivo. Ho bisogno di riprendere il controllo della mia operosità, benché ferita. Troppo letto m’impigrisce. Mi sto bevendo il cervello. Voglio ritrovare il pulsare acceso del desiderio. Ho bisogno di una scossetta elettrica.
Se penso alla mia vita d’artista, vedo venti anni di operosa fecondità, il cui motore è sempre stato il desiderio. Un desiderio irrequieto, scoperto e coltivato. Rivitalizzato ogni mattina, al sorgere del sole. Una certa follia scomposta che riusciva a partorire, dopo un buon pranzo e un bicchiere di vino, una qualche creatura piena d’ispirazione.
In questo modo ho messo al mondo circa 2.000 quadri.
È stata la celebrazione di una vitalità gioiosa.
Attraversato per la quasi totalità del tempo da una corrente creativa tonificante.
Ho creduto nei movimenti delle mie mani.
Ho messo da parte ogni paura di sbagliare, fidandomi del gesto e dell’intuito.
Sono diventato un cantore dell’improvvisazione, affidata a un esercizio quotidiano.
Ora il torpore della degenza si tinge di vergogna al ricordo di questa storia.
Ho bisogno di alzarmi presto e lavarmi la faccia con l’acqua fredda.
Ho bisogno di respirare l’aria fresca dell’aperto.

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Scrivo tanto proprio per questo: per darmi una scossetta, ritrovare quell’euforia frizzante che ti fa sentire davvero vivo. Ovviamente è una scrittura egoistica. È l’amor proprio che mi muove. E anche il ricordo di momenti migliori. Questa scrittura pretende, magari da folle, di realizzare il miracolo, anche se le sinapsi stentano a scatenarsi a causa di un’irritante sonnolenza. Le cose stanno così. La malattia m’addormenta e io mi ribello.

Vorrei urlare la mia dichiarazione d’indipendenza.

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Questo tipo di scrittura non è affatto difficile, se si abbandona la preoccupazione di fare bella figura di fronte all’immagine della nostra professoressa delle Medie o delle Superiori. Scrivere la propria storia è qualcosa che è accessibile a tutti, indipendentemente dai nostri talenti letterari e persino dal grado di scolarizzazione. Noi “scriviamo” continuamente di noi stessi nel nostro cervello. E basterebbe trascrivere quello che di noi ci diciamo nella mente per redigere l’autobiografia. Se siamo fortunati, a rileggere quello che abbiamo scritto ci guadagniamo un po’ più di consapevolezza, di critica costruttiva. A me piacerebbe scoprire su di me qualcosa che ancora non so, non limitarmi a raccontare semplicemente quel che già credo di sapere.

In un periodo di smarrimento e di crisi, vorrei con questa scrittura contrastare l’inevitabile disorientamento, ritrovare la bussola per il mio viaggio esistenziale, vedere se riesco a tenere saldamente in mano il timone della barca, e decidere la direzione della navigazione. Voglio queste cose che mi fanno sentire vivo.

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A essere sincero, quando mi accingo a scrivere di me per me stesso, non ho alcun desiderio di ricostruire gli eventi con l’animo di uno storico oggettivo. Il Desiderio più forte che avverto, e che sposo immediatamente, è di amare il mio passato, di cogliere almeno parzialmente il filo rosso che ha animato tante situazioni diverse, anche contraddittorie, un percorso a zig-zag, apparentemente incoerente, spesso turbolento, saltellante, quasi sempre appassionato… Quel filo rosso che mi ha portato a essere ciò che sono ora: pulsante di desiderio di vita, pur negli arresti domiciliari che mi impone la malattia. Se scrivo del mio passato è per scrivere del mio presente, per animare il mio presente, per vedere nel passato le radici di un albero che vuole ancora spingere i suoi rami verso il cielo.

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La scrittura a mano ha il suo fascino e la sua magia. Me ne accorgo quando scrivo sul mio taccuino. Avverto che è imparentata al disegno. Le parole disegnano le cose, e la mano disegna le parole sulla carta.
La scrittura al computer o al cellulare regala altri vantaggi. Uno è la velocità. Ma la dettatura al computer o all’Iphon presenta alcuni problemi legati al vantaggio di avere una segretaria che scrive per te.
Non riconosce tutte le parole che dico, s’inventa delle cose che non ci stanno proprio. Anche la punteggiatura e le maiuscole sembrano obbedire a leggi contrastanti.
Ho avvertito, a un certo punto, che lasciare il testo trascurato, disseminato di maiuscole che non hanno senso in mezzo alla frase, lasciare termini impropri saltati fuori dai capricci del correttore automatico… oltre che irritare il lettore, rivelava una mancanza di riguardo che non si sposa bene con la cura di sé. Non è la Professoressa delle Medie a presentare il conto. È l’amore di sé.

Spesso è la fretta che ci frega. Allora ho cominciato ad avere più attenzione per le parole e il testo. A correggere le sbavature che l’Iphon s’inventava. Volevo che il testo si presentasse pulito, ordinato, come i “pensierini” che la maestra elementare, un tempo, ci dava per compito.
Beh, ha fatto bene al testo e ha fatto bene a me.

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Una delle cose sorprendenti di questo periodo di malattia è stata la rivelazione che un numero notevole di amici nella mia rete di Facebook ha vissuto o sta vivendo questa stessa esperienza. Tra noi si è stabilita subito una vicinanza che ha creato, o svelato, una dimensione umana speciale, con una grazia e un valore che non avrei sospettato prima. Tale da pensare che la conoscenza che avevo di queste persone era davvero superficiale se paragonata a quella che ora ne ho. C’è una dignità grandissima nel modo in cui vivono la malattia. Com’era facile, quando stavo bene, inneggiare alla bellezza della vita, predicare il coraggio dello slancio e della gioia! Ora che dentro di me, e dentro i miei nuovi amici, ritrovo questo stesso richiamo, esso mi sembra più vero. E di ciò sono molto grato.

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Noi non ci pensiamo, ma perché nasca la tendenza al pensiero autobiografico, alla autobiografia (anzi, alla biografia in generale) bisogna che la cultura in cui siamo immersi e da cui siamo nutriti dia valore all’individuo. Non è sempre stato così. Gli uomini sono stati intruppati per millenni. Esisteva un Noi, un popolo, una tribù, non degli individui. E se c’erano degli individui questi erano i leader che guidavano delle comunità o dei gruppi. Credo che questo sia durato fino all’altro ieri. Oggi è il Noi che tende ad annacquarsi. Mentre, dalle nostre parti, sembra chiaro che le persone si pensano soprattutto come individui. Lo si capisce anche solo dai selfie.
Io mi penso quasi tutto il tempo come un Io. E se talvolta dico “Noi”, mi riferisco a una globale appartenenza al genere umano. Insomma, l’appartenenza non esercita un grande fascino su di me. E poiché non seguo neanche il calcio, non posso neanche scaldarmi nel dire che sono della Juve oppure del Toro.
Sono piuttosto affezionato al mio Io. E ho sviluppato una forte tendenza all’amore di me, al volermi bene. Tutte cose che quand’ero bambino venivano etichettate come egoismo. Nella malattia che sto vivendo mi è naturale affidarmi ai medici, ma per quel che riguarda la mia vita interiore, o faccende come la gioia e la felicità, il buon umore e l’atteggiamento, beh, so che il compito è mio.
Sono io il medico. Anche se mi nutro di letture, di riflessioni di altri, sono io che scelgo, elaboro e adatto i consigli a me stesso. E sono convinto che l’Io abbia in sé risorse straordinarie, da scoprire e coltivare, per svolgere questo lavoro decisivo.
Se una volta il senso e il valore di un’esistenza si andava a cercarli in cosa uno aveva fatto, oggi questo non è più sufficiente. I risultati da soli non giustificano una vita sacrificale: non basta il valore della meta raggiunta, ci vuole anche il valore del viaggio. E il viaggio è il processo quotidiano, dove l’Io vuole trovare il suo appagamento, anche se non lo trova mai del tutto.
La stessa domanda sul senso della vita ha cambiato statuto. Una volta si andava a cercarne la risposta nei Sistemi Filosofici, nelle Ideologie o nelle Religioni. Oggi si ammette che non c’è una Istanza esterna che la detiene. Bisogna assumersi il compito di deciderla, di sceglierla, o d’inventarla noi stessi.

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Io amo essere vivo su questo pianeta.
Amo il soffio della brezza, il sole e l’erba.
I boschi sono il mio rifugio preferito, quando d’estate il caldo mitraglia.
E passerei una vita a danzare come un ragazzino scatenato, tra le pieghe dell’essere.
Amo toccare gli strumenti musicali e restare stupito della voce che emettono.
Amo la parola e il pensiero, che creano altri mondi e partoriscono futuro.
E se oggi è la festa dell’amore (14 febbraio), in qualche modo, lo dirò a chiare lettere:
Io sono innamorato dell’esser vivo!

 

Categorie: Eugenio Guarini