Trovare il proprio ritmo, il discorso del clown.

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Il giorno dopo mi sono svegliato un po’ prima del solito, verso le quattro, e anche questa volta c’era uno spezzone di sogno del mattino che si era attaccato alla mia memoria. Una sola scena: una bambina, sua madre ed io. La bambina voleva parlare a sua madre e io mi facevo carico di insegnarle le parole. Assistevo a quel sorprendente fenomeno dell’apprendimento del linguaggio, dove dei suoni articolati nelle circostanze appropriate, diventano parole significative.

Ancora oggi sono sorpreso dalla capacità delle parole di indicare qualcosa e di comunicarlo. La parola ha un potere incredibile. Ogni volta che batto le parole sulla tastiera sono incantato dalla capacità che esse hanno di provocare una scena sullo schermo interiore e di proiettarvi un’immagine, un evento, uno stato d’animo. Sono rapito dal potere di una frase. La frase scritta che scorre come un nastro nel cervello procurando una visione; o la parola parlata che incanta anche per la sonorità creando tutto intorno una bolla di magia. Quante volte ho invidiato i grandi narratori!

Quando avevo i miei figli piccoli, ho provato il piacere, quasi l’ebbrezza, di inventare per loro le storie prima di dormire, creando quell’atmosfera magica che nasce dopo il “C’era una volta…”.

E che dire delle parole che incontro nella lettura, o che uso anche, senza conoscerne pienamente il significato? Della parola nuova nella lingua straniera? O l’espressione idiomatica in un’altra lingua? Sono rimasto alcuni minuti, ieri, a contemplare il francese “Rien que d’y penser, j’en ai le frisson”, trovato in un testo che sto leggendo e che in italiano diremmo: “Mi vengono i brividi solo a pensarci”?  Quante volte ho rimuginato di riprendere in mano il vocabolario e di continuare il lavoro di consultazione che ci chiedevano gli insegnanti della scuola media! E perché, a un certo punto si smette di farlo?

Il mio inconscio, dunque, stava girando ancora sull’argomento della scrittura. Nel sogno della notte precedente B mi diceva, molto seriamente, “C’è bisogno di un uomo che sappia prendersi cura della casa”. Ho preso queste parole per un rimprovero. E ieri, indubbiamente, lo erano. Ma oggi le ravvisavo in una luce diversa, più come un suggerimento, un’indicazione del lavoro da fare. Nel sogno avevo ricevuto in dono una grande villa. Non ero stato io a costruirla, e tanto meno a comprarla: era un dono. E B mi rendeva consapevole che ora avrei dovuto occuparmene con cura. La grande villa era trascurata, nella scena del sogno appariva trasandata. Se il sogno era un messaggio di una mente inconscia, esso andava ben in profondità. Scuoteva tutta l’impalcatura su cui avevo fondato la mia attività artistica – forse la mia stessa personalità – la mia presuntuosa filosofia della spontaneità? Una filosofia che aveva un senso giacché scardinava il manierismo scolastico e raggiungeva la forza istintiva della vitalità, ma poteva rimanere una posizione permanente senza comportare una limitazione? Quell’avvertenza meritava di essere presa in considerazione. La parte avvincente della faccenda – lo sentivo con sufficiente chiarezza – era che c’era qualcosa da scoprire. Ci avrei lavorato durante il giorno.

Il giorno cominciò come al solito con una passeggiata, questa volta nelle campagne di Castellamonte. Il tempo era splendido e i campi d’erba appena falciata, erano tappeti di pace carezzati da un soffio delizioso. Avevo appena parcheggiato l’auto che incontro Miro Gianola, pittore molto noto, mio coscritto, con il quale a gennaio avevo fatto una mostra al Palazzo Martinetti. Stava camminando in maniera un po’ sofferente, puntellandosi con due bastoni, uno per mano. Decido di fare un po’ di strada insieme e di chiacchierare.

Sembrava che Miro non aspettasse altro. Benché non ci sia familiarità tra noi, abbiamo avuto dei momenti di vicinanza. Ho scritto un articolo su di lui che ha apprezzato molto per il mio tentativo di comprendere la sua sensibilità, il suo carattere e la sua visione artistica. C’è un po’ di rivalità tra noi. Lui dice che io “non ho pittura” perché non ho percorso un itinerario regolare e mi sono improvvisato pittore un po’ alla “fauve”. “Però scrivi molto bene”, mi ha detto. E io, stupidamente, mi beo nell’idea che fisicamente sono apparentemente più giovanile di lui, e credo di avere un approccio più vitalistico alla vita e all’arte. Ma, anche solo a metterle per iscritto, mi rendo conto che queste considerazioni sono idiozie.

Ha incominciato a raccontarmi i suoi recenti trionfi, la Via Crucis composta per la chiesa di Chiavenna, la mostra organizzata per lui da Sandra Baruzzi nel Cantiere delle arti, e gli brillavano gli occhi. Poi ha ricordato la morte di Giuseppe Valsecchi, di quell’altro che si è suicidato, ed erano compagni di sbornie, come direbbe Bukowski. “Di tutti quelli di un tempo sono rimasto solo io!”, avvertiva con soddisfazione. Mi fa sapere che sua moglie Graziella ormai non riesce ad usare più le gambe, che Isotta, una delle figlie, ha ripreso a fare ceramica e che Gabriele, il nipote che adora, è a Barcellona a seguire un compagno che ha vinto un concorso da Google per i videogiochi. Poi mi racconta che è caduto sulle scale e che questo trauma gli ha smosso l’apparato che gli hanno impiantato per reggergli la schiena e il dottore lo ha messo in guardia da altre eventuali cadute, suggerendogli di deambulare con i due bastoni. Avverto in lui quelle vibrazioni calde che scaturiscono dalla sua attività di pittore. Esse si propagano e mi raggiungono, facendomi risuonare come un diapason. Mi propongo di andarlo a trovare e di vedere le immagini di questa Via Crucis, per la quale si è interessato anche Monsignor Bettazzi. Mi ringrazia per avergli consentito questo “sfogo” e ci salutiamo sotto la porta di casa sua.

L’altra ora di camminata la trascorro a riflettere sulla mia questione: curare la casa della scrittura. Cosa c’è da scoprire su questo fronte. È così intrigante immaginare di andare incontro a una scoperta che porterà una trasformazione interna. Perché il viaggio non è sono nel fare cose, nel muoversi da qui a lì. Il viaggio è nell’interno e c’è un gran piacere ad avvertire il cambiamento intimo, il mutamento del chimismo interiore. E’ come scoprire un continente altro dove ci si può attendere di sentirsi più a casa.

Anche le nostre emozioni, le attese, il desiderio, le modalità di apprendere e di esprimere se stessi, sono il risultato di esperienze e condizionamenti. Non sempre collimano perfettamente con quel nucleo misterioso che risiede dentro di noi con il quale confrontiamo la nostra esperienza attuale. Spesso si prende coscienza di un gap tra ciò che si è a livello superficiale e ciò che urge in profondità. Da quel gap emerge una certa urgenza, che spinge alla ricerca, anzi, che fa della ricerca una modalità allettante. Avvertivo questa urgenza. Il sogno della casa della scrittura l’aveva evocata. Mi sembrava naturale dedicare la giornata all’avventura della scoperta.

Alle dieci avevo un appuntamento con Antonella R, in una borgata di Pont Canavese. Si tratta di una giovane donna che ho conosciuto la settimana scorsa nell’azienda agricola di Alessandro G, uno dei miei amici bionieri, se non il più benvoluto. Al momento delle presentazioni mi sono subito incuriosito: è di Torino, vive a Chambery dove segue il terzo anno di formazione circense al Flic… e che ci fa qui a titolo di wwoofer in una fattoria biologica?

Questo per dire la mia curiosità. Perché certe persone mi suscitano immediatamente curiosità? Perché vorrei conoscere più a fondo la loro storia? Cosa c’è nella storia di altre persone che mi riguarda? Non voglio tentare risposte esaurienti a queste domande. Credo soltanto che si tratti di desiderio di vita: di vivere intensamente e di cercare stimoli nella vita degli altri. Un modo per credere che siamo tutti connessi, che le nostre singole esistenze hanno cibo per ogni altra esistenza.

E di questo passo arrivo alla fattoria di Poc ma Bon, l’azienda agricola biologica di Alessandro G. Parcheggio e mi accorgo che Ale non mi ha sentito perché sta ripulendo col decespugliatore gli spazzi che circondano la sua serra. I cani mi vengono incontro e fanno a pezzi il bianco dei miei pantaloni. Sono in anticipo e Antonella ancora non si vede. Mi sposto sulla strada a camminare e tentare di riflettere. Rifletto nella speranza di superare la distanza che c’è tra il fare le cose e diventarne consapevole. Impresa avvincente apparentemente impossibile. E la scrittura mi sembra tutta animata da questa intenzione. Per me la scrittura ha avuto sempre questo intento. Il silenzio della meditazione e la parola attenta sono entrambi strumenti di consapevolezza.

E finalmente la vedo arrivare, con i suoi cani.

La conversazione entra subito nel punto. Antonella accetta di raccontarmi il suo lavoro come insegnante in un istituto per sordi a Torino, vedo che è fiera di quello che ha fatto, vedo che è fiera della lingua dei segni, è fiera dei suoi allievi. Anch’io ho avuto dei rapporti con dei sordomuti della scuola di Cossato, nel Biellese, e ne sono rimasto incantato. La LIS, Lingua Italiana dei Segni, è qualcosa destinato a smuovere le viscere di ogni persona sensibile. Una lingua che è fatta di gesti, ma anche di molto altro. Fondamentalmente emozione e sentimenti. Di per sé una lingua teatrale: i parlanti recitano con partecipazione emotiva quello che dicono. Nessun paragone con un parlare amorfo, anonimo e asettico, che comunica informazioni fredde. Capisco molto di quello che Antonella mi dice. Ma, allora? Perché il circo?

Le vicende della vita portano Antonella fuori dalla scuola per sordomuti. Non ha i titoli necessari. Dopo cinque anni ci vuole la laurea e Antonella non l’ha portata a termine. Di fatto, durante l’università scopre che lo studio l’annoia. Lei deve fare, ha bisogno di usare le mani, e il corpo.

Un periodo di crisi. Il solito grande momento in cui le cose traballano e tu capisci che o ti decidi o muori. Lei si domanda: dove sarei felice, adesso? E la risposta le viene subito: sotto lo Chapiteau!, che è il tendone del Circo.

È una passione che ha scoperto da piccola, ma frenata dalle esigenze di fare qualcosa che consenta di pagare le bollette. In montagna, da bambina, ha assistito a uno spettacolo di acrobati dei tessuti. Dice a sua madre che vuol fare quello da grande. La madre scuote la testa e le impone di scegliere un liceo!

Ora però è il momento. Una sua insegnante amica le fa da mentore e la incoraggia. Antonella si dà da fare, si esercita, s’impegna. E l’allenamento e la formazione sono duri. Alla fine va alle audizioni del Flic a Chambery e viene ammessa!

Wow.

– Qual è la tua specializzazione?

– Il cerchio aereo e… clown!

– Clown? – dico io.

La guardo. È una figura minuta, ma elastica, le spalle relativamente larghe, gli occhi grandi, il volto tendente all’ovale. Incomincio a vedere il volto del clown. E le chiedo di parlarmi di questa figura.

“Il clown è una figura che fa ridere. È una figura che dà, che si dà, che si sdà completamente. Fino a che non resta quasi più niente per sé. Di qui quell’immagine di tristezza che la gente percepisce come connessa alla figura del clown”.

Ho un sussulto.

Vedo nella testa Patch Adam.

Questa ragazza sta amando il mondo, la gente.

Sono quasi sgomento. Mi sta toccando il cuore.

I clown toccano!

Mi riprendo.

– Antonella, è fantastico, bellissimo. Ma spiega: perché qui? Che ci fai qui?

– Sto cercando cose nuove, insegnamenti, comprensione.

– Cosa stai sperimentando?

– Un nuovo ritmo.

– Stai fuggendo dal ritmo stressante della vita moderna, come fanno molti che vanno nell’artico o nel deserto?

– Non sto fuggendo. Sto cercando di capire qual è per me il ritmo giusto. Sto cercando di vivere qui il ritmo della campagna, dell’agricoltura, per vedere in che misura si adatta a me. Vivere secondo il proprio ritmo è vivere in libertà, sottraendosi ai condizionamenti dell’ambiente. Non si tratta di andare piano o veloce. Si tratta di trovare il proprio ritmo.

La guardo sbalordito. Nelle sue parole leggo una lezione che mi calza.

Anche la scrittura sembra chiedermi qualcosa del genere. Evitare la fretta, prendersi il tempo per dire, per ascoltare quello che esce dalle dita sulla tastiera, per diventare consapevole delle parole che scrivo, per viverne il senso, per suonare una composizione idonea.

Eugenio

Categorie: Eugenio Guarini