Cosa farò da grande

Cosa farò da grande?

Il padre di Xavier era un giovane comunista brasiliano, Mauro Silva, rifugiato a Parigi per fuggire alla dittatura nel 1970, l’anno in cui il Brasile vinse per la terza volta la coppa del mondo. A Parigi qualche anno dopo incontrò la donna che sarebbe diventata sua moglie, una bellissima ragazza toscana, Marta Motroni, che aveva un lavoro di responsabilità logistica alla Citroën. Lui, dopo diverse vicissitudini, aveva trovato un impiego da magazziniere ai supermercati Leclerc a Ivry sur Seine e la loro vita da innamorati a Parigi era stata bellissima, perché non c’è posto migliore di Parigi quando si è innamorati.  Un bel giorno, però, Marta perse il posto di prestigio che aveva finora occupato, ufficialmente per una ristrutturazione dell’azienda, di fatto perché era incinta e i suoi superiori giudicarono che nella sua nuova condizione non avrebbe più potuto offrire tutto quell’impegno che la mansione comportava. Marta fu in realtà ben felice della retrocessione. Era partita con l’idea di fare carriera, dimostrando che una donna moderna è in grado di salire la piramide non meno dei maschi, ma la sua esperienza l’aveva fatta riflettere. Passare un’intera esistenza a sgomitare per salire nella scala gerarchica le era apparsa chiaramente una stupidaggine. L’amore, la famiglia e un certo equilibrio nell’esercizio delle proprie esigenze costituivano senza dubbio un modo migliore di passare questi pochi anni sulla terra. Qualche anno dopo la nascita di Xavier, ci fu un nuovo cambiamento. Fu trasferita alla Citroen Italia con mansioni ridotte a settori marginali della comunicazione, e allora decisero senza troppi ragionamenti di trasferirsi a Torino, dove Mauro riuscì a farsi assumere alla Coinca: Con i due stipendi riuscirono a mantenere un dignitoso tenore di vita e a mandare Xavier all’università, quando ebbe finito il liceo scientifico. Seguendo i consigli dei suoi docenti, Xavier Silva si era iscritto a Economia e Commercio, senza ulteriori valutazioni., fatto un anno di Erasmus a Barcellona, dopo aver gustato la bella vita spensierata degli studenti che con lui condividevano quell’esperienza, Xavier si rese conto che l’Economia non avrebbe mai potuto essere il suo futuro. Credeva di sentire un’inclinazione di tipo artistico ma non sapeva ancora decidere in quale settore investire i suoi talenti. Fu così che, col consenso della famiglia, si era preso un periodo sabbatico con l’idea di esplorare se stesso e le opportunità del mondo.

Valerie l’aveva conosciuta a una festa di compleanno di un’amica comune ai Murazzi. Era nata subito tra loro una forte simpatia e un’amicizia rara. In altre parole, parlavano molto insieme confidandosi pensieri ed emozioni e sembrava loro che questa fosse una risorsa irrinunciabile per avventurarsi nel futuro.  A Xavier Valerie sembrava molto determinata sul percorso di studi che aveva intrapreso, anche se le preoccupazioni per la difficoltà di trovare lavoro in un settore con un grande potenziale ma concretamente stupidamente trascurato, gettavano di tanto in tanto ombre lunghe sul suo buon umore e il suo entusiasmo. “D’altra parte – diceva – oggi trovare lavoro è diventato difficile per tutti. Per il momento mi voglio formare senza inquinare il mio animo con le preoccupazioni”. Di critiche alla scarsa valorizzazione del patrimonio artistico italiano se ne sentiva di continuo, ma nella realtà non succedeva niente che mutasse la situazione. “Comunque siamo giovani, abbiamo energia, e sapremo adattarci alle circostanze”.

Xavier era meno ottimista di Valerie, ma forse il motivo risiedeva anche nel fatto che non aveva le idee chiare su cosa desiderasse davvero dalla vita. Aveva letto diversi libri che insistevano sull’importanza, per la qualità della propria esistenza, di cercare di guadagnarsi il pane facendo ciò che si ama davvero ed era affascinato dalle storie, sempre più numerose, di chi mollava tutto per dedicarsi alle proprie passioni inventandosi un lavoro compatibile con la gioia. Oggi sembrava che la gente, anche i suoi compagni più giovani, più che trovare un lavoro fosse impegnata a inventarselo. Queste considerazioni lo eccitavano, gli scaldavano il cuore, ma poi si rendeva conto che i personaggi che ammirava per le scelte audaci di cui erano stati capaci avevano già chiaro in mente che tipo di vita desideravano. “E chi non sa cosa vuol diventare da grande – si domandava – cosa deve fare?”

Lui, questa certezza non l’aveva ancora. E a volte, nei momenti di più basso profilo, gli veniva il dubbio che le sue aspirazioni d’artista (fare lo scrittore? Il fotografo? Il compositore?) fossero inquinate da una qualche forma di velleitaria megalomania. No! Doveva assolutamente capire che cosa poteva dare un senso e una motivazione forte alla sua esistenza. Doveva chiarirsi le idee. Tutto qui. Ce l’avrebbe fatta. E a pensarci bene, negli ultimi tempi era successo qualcosa che aveva incominciato a polarizzare la sua ricerca. Era forse la prima volta che un incontro un po’ casuale lo aveva smosso da quella situazione di stallo interiore che proprio non assomigliava per nulla a ciò immaginava significasse vivere.

Era successo mentre attraversava un mercatino rionale, in Piazza Benefica, dove alcuni produttori agricoli stavano facendo al pubblico una presentazione della propria azienda, all’interno di qualche iniziativa della Provincia o della Regione. C’erano delle bancherelle con vari tipi di miele e uno degli apicultori mostrava al pubblico una teca di vetro con dentro un vero favo, dove le api svolgevano tranquille il loro lavoro. C’erano altri banchi con confetture di mirtilli, albicocche, pesche, pere prugne. Altri produttori presentavano prodotti freschi dell’orto e del frutteto, che non erano belli come quelle del supermercato e anche meno regolari nella forma, ma davano l’impressione di essere più naturali, meno finti. C’erano rivenditori di vino, di formaggi, c’era perfino un seggiolaio molto folclorico, che passava il tempo d’attesa dei clienti intrecciando con cura e abilità striscioline di erba secca. Accanto al seggiolaio c’era un banco di piantini e un altro di erbe aromatiche, o meglio di oli essenziali e altri prodotti del genere tratti dalle erbe aromatiche. Ogni bancherella aveva una bella scritta, ben leggibile, con il nome dell’azienda relativa. E poi cartelli che parlavano di chilometro zero e filiera corta. Nel momento in cui Xavier stava curiosando nel mercatino, aveva preso la parola un giovane alto e sorridente, che aveva davanti a sé prodotti dell’orto e piccoli frutti. La sua azienda aveva un nome originale, in piemontese, Poc ma bon. “Io mi chiamo Alessandro – stava dicendo – sono laureato in Scienze Forestali e Territorio. A differenza della maggior parte dei miei compagni che sognano una vita in città io ho preferito andare in campagna, anzi in montagna e fare il contadino”.

Xavier non avrebbe mai sospettato che un giovane laureato aspirasse a fare il contadino. Sì questa cosa gli sembrava paradossale. E poi, anche il nome dell’azienda, Poc ma bon! Anche questo sembrava indicare una prospettiva insolita. “Chiunque intraprenda un’impresa, metta in piedi un’azienda – pensava Xavier – aspira ad avere successo, vale a dire a produrre sempre di più e conquistare spazi sempre più vasti del mercato. Che filosofia imprenditoriale era quella di Alessandro che aspirava a realizzare poc ma bon?” Sì, lo doveva ammettere, erano state queste circostanze a farlo riflettere: un laureato che vuole fare il contadino e un’azienda il cui obiettivo è poc ma bon! Si era avvicinato, aveva preso il biglietto da visita e letto che la sua azienda si situava in una borgata di Pont Canavese, nella Valle dell’Orco.

Mentre si allontanava sentì che doveva andare da questo ragazzo parlare un po’ con lui. Ne aveva parlato a Valerie che, con il suo spirito d’osservazione, aveva commentato: “Certo il poc ma bon è tutto il contrario di ciò che ci hanno insegnato. Ma se un laureato va a fare il contadino ci sarà una buona ragione!”. All’inizio della settimana, poco prima del convegno di Alba, erano andati a trovarlo.

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