Il vecchio che non voleva morire di mattina

Il vecchio si alzò presto e andò subito sul terrazzo a est. Ci andava tutte le mattine per vedere sorgere il sole. Era la prima emozione della giornata, la più importante. Non appena l’astro di fuoco si affacciava dalle colline, il cuore del vecchio accelerava il battito, gli occhi si spalancavano e la bocca restava per un momento dischiusa per la meraviglia. Poi arrivavano, al solito, impacciate nella loro veste verbale, le domande di sempre. Chi siamo? che ci facciamo qui? cos’è tutto questo? Come se ottant’anni di vita nel mondo, nella civiltà, come se tanti libri letti e tante parole scambiate, non fossero bastati per niente a trovare risposte che lo sapessero quietare.

“Il mondo è luminoso e bello – pensò – ma il suo segreto resta nascosto. Comunque, che importa? Ogni mattina è come iniziare il viaggio di nuovo e io sono ancora vivo”.

Il vecchio era consapevole che le sue gambe e la schiena e i piedi non erano più quelli di un tempo. Ma il cuore no, quello batteva sempre forte e caldo. Era un cuore appassionato. E lui era convinto che lì risiedesse il motore della vita e, forse, il segreto di una longevità felice.

“La mente sa che si muore – pensò – ma il mio cuore non vuole sentire ragioni. Per lui – aggiunse – la vita è sempre mattina”.

Rientrato in casa, si fece un succo di due arance con la centrifuga, poi il caffè nero abbondante, di cui riempì una tazza, dove lasciò cadere pezzetti di pane e scolare miele di rododendro. Andò a mangiare la sua colazione sul balcone, dopo aver aperto l’ombrellone perché la luce non lo abbagliasse. Aveva indossato una leggera giacca da camera sulla maglietta del pigiama, perché dopo i primi temporali d’agosto la temperatura era calata di molto e di mattino era piuttosto fresco. Davanti a lui si stendeva il paesaggio che amava: il bosco attorno al torrente, la pianura con il castello e la cittadina medievale, le colline che delimitavano con dolcezza verdeggiante il suo orizzonte.

Il vecchio aveva un sogno. E quel sogno gli si ripresentava regolarmente a ogni spuntare del sole da due anni a questa parte. La cosa che desiderava di più al mondo era diventare un grande scrittore, con un pubblico adorante, e, soprattutto, con un’ispirazione traboccante di vera autentica poesia. E ogni mattina, sul balcone est del suo alloggio, dopo aver guardato con stupore sempre nuovo il sorgere del sole, dopo essersi meravigliato di essere al mondo e poter assistere e partecipare un po’ a questa grande vicenda che chiamiamo vita, si diceva: “Ecco, sono ancora qui a domandarmi cosa posso fare per diventare un grande scrittore?”. E poi pensava che non aveva contatti con gli Editori, che era piuttosto vecchio ed isolato e… che non sapeva veramente di cosa avrebbero parlato i suoi improbabili libri. Ma queste considerazioni non riuscivano a strapparlo minimamente dal suo sogno. Ce l’aveva nelle ossa. Circolava col suo sangue. Ne sentiva il gusto stordente sul palato. Lo inalava in ogni respiro.

Cos’era quest’amore per la scrittura, cosa significava il fascino che le parole esercitavano su di lui? Che cosa voleva dire quell’emozione intensa, intima, sconvolgente, che provava ogni volta che scriveva una frase, anche un semplice pensiero? Si ricordava di quando, alle elementari, la maestra chiedeva ai ragazzi di scrivere i “pensierini”. Lui adorava quei “pensierini”. Avrebbe voluto ritornare alle elementari. Solo per godere di quei “pensierini”.

Un “pensierino” è un piccolo quadretto che racchiude, oltre la scena da vedere, la luce incantata dello sguardo che vi si è posato:

Il vento soffia sulla collina piegando i rami degli alberi, su cui gli uccelli rimangono aggrappati come frutti ancora acerbi che non vogliono cadere.

Oppure allude a una storia sconosciuta, mettendone la curiosità addosso al lettore:

Il comandante della nave fece scendere il cavallo dalla passerella, sollevando lo stupore della gente, venuta ad accogliere i passeggeri.

La signora con il grande cappello si fermò di colpo e con uno scatto nervoso si volse verso il campanile da cui provenivano quegli strani rintocchi.

Il vecchio rientrò in casa, prese il grosso quaderno degli appunti e il pennarello. Ritornò al tavolino sul balcone e scrisse:

Poesia è quando, dallo slancio del cuore nasce una nuova realtà così luminosa e incantevole che anche la prima realtà dimentica il suo grigiore.

Si osservò mentre vergava a mano queste parole. Non c’era dubbio: era proprio un’emozione indicibile. Era una magia che un pensiero si formasse mentre disegnava le parole sulla carta con un gesto felice della mano, la quale pareva sapere da sé dove condurlo. “Io devo diventare uno scrittore!”, ribadì. Poi gli venne tristezza all’improvviso. Un’onda fredda e scura che gli raggrinziva l’anima.

“Che stupido! – pensò il vecchio – Devo proprio essere rimbambito. E’ un sogno impossibile! Non si diventa un grande scrittore alla mia età!”. E non appena ebbe formulato questo pensiero, vide l’ombra della morte allungarsi su mondo intero. Anche il sole sbiancò, perdendo ogni interesse. Il fiato gli venne pesante al punto da stentare a sollevare il petto per inspirare. Ne fu spaventato a tal punto che gli ci volle uno sforzo disperato per riportare il suo sogno davanti allo sguardo, in maniera da sentire di nuovo il calore del sole sul suo balcone e dentro di sé.

“Sarà anche impossibile – pensò – Eppure è proprio quest’impossibilità che rende così intrigante quest’idea. È chiaro che non posso rinunciare a questo sogno. Sarebbe come rinunciare a vivere. Sarebbe come morire subito. Morire adesso. E come si fa a morire di mattina?”

“Che cosa c’è di così affascinante nella scrittura? – il vecchio si domandava – Cosa m’innamora a tal punto nelle parole?” Pensò ai tanti libri che aveva letto: romanzi, saggi, racconti storici, manuali, poesie… Com’era sorprendente che, scorrendo con gli occhi un nastro di parole, nero su bianco, si formasse nella mente quasi la proiezione di un film, nel quale si dipanavano paesaggi ed eventi che si potevano vedere, di cui il cuore si emozionava, provando gioia o paura o disappunto. Era straordinario essere visitati in quel modo da pensieri che si potevano condividere, o con cui su poteva discutere, o ricevere stimoli che facevano intuire, a volte, orizzonti su nuovi mondi, su modi diversi di sentire e vivere la vita!

Da quei mondi racchiusi nei nastri di parole, lui aveva goduto, si era nutrito, moltissimo. E ora sentiva il desiderio di regalare al mondo anche lui dei nastri di parole che fossero in grado di produrre per altri la stessa magia. E, prima ancora, sentiva il desiderio di provare l’emozione incredibile di creare anche lui questi mondi immaginari e di fissarli sulla carta, lasciando che fossero le sue dita a trovare il modo giusto.

E il vecchio era anche convinto che quando si scrive non si evoca solo un mondo immaginario ma si fa succedere anche qualcosa di reale in colui stesso che scrive. Qualcosa viene fuori dal buio e prende forma. Si avvia una trasformazione di sé, per diventare, parola dopo parola, pensiero dopo pensiero, scena dopo scena, un altro, nuovo, che è però qualcosa che era già dentro, come una pianta che germoglia dal seme sepolto, come un fiore che sboccia da una gemma chiusa. Il vecchio era convinto che, anche quando si son fatte tante cose, la gran parte di ciò che abbiamo fatto e di ciò che è avvenuto mentre lo facevamo rimane nel buio, come adagiato sul fondale oscuro dell’oceano. E che tutto ciò non può venire a galla, mostrarsi alla luce, che con le parole giuste, appropriate. E il vecchio sentiva quest’urgenza ineludibile che la parte buia di sé venisse alla luce e mostrasse il suo mistero.

Prese il pennarello e scrisse sul suo grande quaderno:

Al mondo ci sono luoghi e cose straordinariamente belle e incantevoli che aspettano solo i nostri occhi per saperlo.

“Sì, devo crederci! – si disse. Non importa se sono vecchio. E, a pensarci bene, non importa neanche se non troverò un editore o se non avrò un pubblico. Quello che importa davvero è scrivere. Scriverò per me. Se scriverò per me sarà più che sufficiente”.

Nel concedersi a questi pensieri sentiva che l’anima si alleggeriva e che il problema, da complicato e impossibile, era diventato semplice. Anzi, già risolto, perché lui già scriveva per sé, già annotava pensieri che gli aprivano lo sguardo e gli sollevavano l’anima, rivelandogli il profondo ineludibile bisogno di poesia e di slancio che lo abitava.

Gli venne in mente quella bella frase che il grande uomo dei personal computer aveva lasciato in eredità: siate affamati, siate folli!  “Sì – pensò – Affamato lo sono di mio e per essere folle mi basta aggiungervi solo un tocco di coraggio. E ho intenzione di farlo”.

E così, mentre il sole saliva sopra l’ombrellone, seduto al tavolino sul balcone est, prese il suo quaderno e lasciò che la mano incominciasse a scrivere:

Titolo: Il vecchio che non voleva morire al mattino.

 

Fine

Categorie: Eugenio Guarini