Il vento soffia dove vuole

Il quadro: Judith, acrilico su tela, cm 70×120

Il vento soffia dove vuole

Mioddio, mi piaceva da morire saccheggiare tutta quella letteratura sulla moderna cultura d’impresa. Non c’entrava niente con la mia attività d’insegnante. A scuola parlavo di Kant e di Hegel e nel mio alloggio, in privato, divoravo Alvin Toffler, Peter Drucker, Edward De Bono, Robert Gilbreath, Peter Senge, Tom Peters e tutti gli altri. L’intera collana della Sperling & Kupfer…

E sapessi come li divoravo. Sapessi come elaboravo quelle idee. Ricevevo uno spunto, ne sentivo il gusto e lasciavo il cervello funzionare con il suo respiro. Respiravo e mettevo giù. Ho cominciato allora a riempire interi quadernoni di riflessioni. E non ero neanche io che pensavo. Io mi sforzavo di registrare rapidamente quel che il pensiero portava a riva. Hai presente quando insegui qualcuno che sta sempre davanti a te? Il tuo problema è di rimanergli alle calcagna.

Perché quello che mi piace del pensare è che viene da sé. E ti porta una carovana di idee e di spunti che possono davvero arricchire la vita. Sono visite di angeli e di fate. Sei investito da una corrente di personaggi che parlano con verve e concitati. Io rimango sempre a bocca aperta quando mi accorgo del pensiero. Rimango a bocca aperta perché una cosa così personale, come il tuo pensiero, è anche completamente altro da te. Una risorsa che viene da altrove.

Il difficile è stargli dietro. Difficile è afferrare al volo quello che ti porta. E spesso la rete delle parole è inadeguata. Maglie troppo larghe, che si lasciano sfuggire le cose più fini. Devo migliorare sempre le mie reti.

E fu in quel fermento di pensieri che l’idea venne. E la riconobbi subito. Era la mia idea. Riguardava me. Era come riconoscere l’amore a prima vista. Un colpo di fulmine.

L’idea. Ero pronto oramai ad apprezzarla perché quelle letture mi avevano lavorato dentro. Mi avevano arato. Ero diventato capace di accogliere una fantasia, un’idea magica. E di tradurla in termini pratici e personali. Questo era il punto.

L’idea era come un sogno, un video clip. In questo breve filmato, io precipitavo da una montagna, con il terrore di sfracellarmi in qualche abisso, e, all’improvviso, mi spuntavano ali da deltaplano. Tutto qui. Pochi istanti. Una frazione di secondo. Con quelle ali, cominciavo a volare. Tutto qui. Semplicemente questo. Ma la colonna sonora dell’idea non la posso raccontare adeguatamente. Si può raccontare la musica? La colonna sonora affermava che quella era la mia strada. Lo diceva al cuore e lo diceva in maniera da insinuarti nelle arterie una certezza che nessun ragionamento logico ti può provocare.

Sì – lo penso ancora adesso – è cominciata in quel modo quest’avventura d’artista (ali da deltaplano). Un piccolo video clip del pensiero che arriva come un disco volante dagli spazi oscuri della mente e che contiene la risposta alle tue domande. Avrei fatto quello che il video clip indicava in maniera inequivocabile. Ci puoi scommettere che l’avrei tradotto in pratica.

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Categorie: Eugenio Guarini