Fin dal risveglio

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Fin dal risveglio.


Veleggiavamo, in qualche modo.
Era la vita.


Quando dicevamo questa parola, eravamo commossi. Sentivamo un richiamo. Le parole sono forse soltanto dei segnali, dei cartelli indicatori. Chi ha inventato le parole?
Veleggiavamo. Era bello. Ci nutrivamo del vento e del sole e anche l’acqua del mare ci portava energia…
Veleggiavamo. Una sorta di piccolo cabotaggio quotidiano. A noi bastava pulire i pavimenti e mettere in ordine la nostra barca…


Bene. Veleggiavamo nell’essere.


L’impresa era l’avventura di essere quello che eravamo. Volevamo diventare quello che eravamo. Certo, lo sapevamo, c’era il mercato, le bollette, le tasse e l’affitto. E sapevamo che dovevamo guadagnare dei soldi per pagare il biglietto di essere al mondo in questa società. Ma che vuol dire? Anche se fossimo stati all’età della pietra, avremmo dovuto faticare per costruirci archi e frecce e cacciare scoiattoli e daini per la cena. Non era poi così diverso.


Veleggiavamo nell’essere. Volevamo scoprire cosa significa essere. Volevamo esserlo. E questo lo chiamavamo la nostra impresa, la nostra avventura.
E l’impresa era incontrare persone, incontrare eventi, fare delle cose, immettere nel mondo, nella vita, quello che ritenevamo i nostri frutti.


E non era brutto mettersi a ragionare sulle sfide, sui problemi e inventare linee di comportamento. Non era affatto brutto. Al contrario, faceva parte dell’avventura.
E c’incontravamo spesso in situazioni d’animo che sembravano ostacolare il nostro spirito d’avventura. E ci sentivamo stanchi, a volte. E volevamo capire. Mettevamo forse in discussione, per qualche ora, le nostre spinte coraggiose. Ma poi, ritrovate le energie, dopo aver riposato, dopo esserci concessi i momenti di pausa, dopo aver ritrovato il nostro ritmo, beh, poi ritrovavamo dentro di noi la voglia di continuare il gioco.


Comprendevamo che questo era il dono della vita, di rigenerare le nostre forze.


Pensavamo che i nostri desideri non erano solo nostri, ma che era la vita a ricrearli dentro di noi. Era come avere un messaggio, un ordine di servizio – si fa per dire. E ci piaceva pensare che quello che desideravamo non era solo nostro ma era della vita.


E la mente funzionava meglio quando eravamo in questa condizione  d’animo. E inventavamo pensieri che aprivano l’orizzonte, che consentivano alle energie di fluire.


Avevamo messo a fuoco quest’idea: che la vita si sdoppiava. C’era una parte che riguardava noi, il nostro rapporto con la vita dei nostri umori, diciamo così. E c’era una parte che riguardava gli eventi, i fatti che avvenivano là fuori, sulla superficie terrestre.
Noi sapevamo che queste due parti erano parallele. Noi volevamo che coincidessero, che si saldassero armoniosamente. E sapevamo che non si trattava solo di realizzare degli eventi là fuori, ma che , contemporaneamente, si trattava di vincere delle battaglie dentro di noi. Il Santo Gral era questo. Una battaglia dentro e una vittoria fuori. Tutto insieme.


Fin dal risveglio, il nostro primo impegno era quello di connettersi. Se qualcosa ci spingeva a gettarci precipitosamente e ansiosi nelle cose da fare, rallentavamo, facevamo toilette in maniera più calma, pulivamo il tavolo da lavoro, mettevamo in ordine il cucinino, aspettandoci di ritrovare la connessione.


Sapevamo sviluppare la cura degli umori. Con dolcezza, ma senza pigrizia. Sceglievamo di coltivare gli umori che producevano gioia di vivere, senso del mistero, disponibilità alle sorprese, curiosità e meraviglia. Era come rinascere bambini ogni mattina.
Solo dopo ci occupavamo delle cose da fare e progettavamo eventi e azioni. E mentre agivamo, sapevamo mantenere quella forma di consapevolezza che è cura amorosa delle cose che facevamo. E, in questo modo, sembrava che gli eventi capitassero proprio perché avevamo sviluppato l’arte di desiderarli con amore. E sembravano miracoli.


Non lo erano?
Belle Notizie


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Sul Diario di Bordo, le foto degli incontri di Parma e di Bologna. Qui.


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Il quadro: Le due amiche (acrilico su tela cm 100 x 100

Eugenio Guarini
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