nascita destino e parole
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il quadro : C’est moi, acrilico su tela cm 1090 x 100.
La nascita e il destino
Lo so che te lo sei fatto diverse volte questo discorso. Ora te lo riproduco. Ti ci riconoscerai.
Ti sei detto quanto segue.
Sono venuto al mondo senza averlo deciso. Non c’ero. Mi ci sono trovato. Un po’ per volta. Perché quando mi sono accorto di esserci c’ero già da tempo. E mi chiedo: che senso ha?
Quando mi hanno detto che sono nato perché i miei genitori avevano fatto certe cose, beh, sì, qualcosa della mia venuta al mondo l’ho afferrata. Ma dal mio punto di vista, voglio dire dal punto di vista di una storia narrata dal protagonista, all’inizio, quell’inizio in cui all’improvviso tu ci sei stato – e prima non c’eri – e non te ne sei nemmeno accorto – e che te ne sei accorto più tardi come se la consapevolezza fosse un frutto tardivo dell’essere – beh, voglio dire che all’inizio, se tu volessi raccontare la tua storia, c’è un vuoto, uno strapiombo oscuro che ti tronca il discorso.
Tu sei comparso – te ne sei accorto dopo che questo era avvenuto – e non sai veramente perché, chi, cosa…
Io ci ho pensato diverse volte. E ancora tanto durante questa convalescenza. E rimango ogni volta senza parole. E a scriverci sopra ne uso tante proprio perché di fatto non ho le parole che ci vorrebbero. Questo mi batte in testa: mi sono trovato tante volte a raccontare di cose fatte, di avventure, di emozioni, di accidenti e di decisioni, insomma di cose che potrebbero riempire una storia…, ma a partire da un inizio in cui… io non c’ero e quindi che non saprei narrare.
Io non posso finire di meravigliarmi del fatto che mi sono accorto di esserci e che potevo raccontare di me una storia quando già era successo che ci fossi, che venissi al mondo. Ma quella storia, quella che mi ha portato ad esserci, quella non avrei saputo davvero come raccontarla.
Le parole
Comunque la cosa era interessante. Mi piaceva esserci e non facevo tante domande. Però per dirlo a parole, erano le parole inventate prima di me e usate da altri che mi si imponevano.
All’inizio, non volevo imparare a parlare. Mi sembrava una forzatura. Una violenza. Io – fosse stato per me – avrei continuato a vivere senza parlare. Solo facendo e sentendo. In silenzio. C’era bisogno di dirlo?
La gente però parlava e sapevo che avrei dovuto imparare a parlare anch’io. Un giorno mi ci son messo d’impegno e ho incominciato a imparare le parole.
Le parole sono grandi. Hanno un potere fantastico. Poi sono veramente tante. E combinate insieme possono fare frasi spettacolari. E possono perfino ottenere dei risultati, vale a dire, creare le cose che dicono.
Sono diventato presto bravo con le parole. E ho anche imparato a fingere, dicendo con le parole cose che non erano, soprattutto se riguardavano me.
Mi sono anche accorto che raccontando parole-bugie agli altri riuscivo perfino a ingannare me stesso. E di qui sono passato al teatro, dove le bugie si dicono sapendo tutti che sono tali. E quindi non sono più bugie.
Io non credo nei miti, nelle favole e nelle leggende. Le trovo solo infinitamente affascinanti. E vorrei inventarne di indimenticabili.
So che quello che dicono le favole è quasi sempre vero, in qualche modo.
Con le parole vorrei fare centro nel bersaglio, ma senza usarle come fa il chirurgo in sala operatoria.
Preferisco prima parlare e poi cercare di capire quello che ho detto, piuttosto che il contrario. Ma se è possibile, vorrei che dire e