Una passione
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Una passione
E venne il momento in cui la cosa partì. Cioè mi sono deciso. A vederlo adesso, non è stato poi così eroico! Stavo semplicemente nella merda, con i quattrini e con l’umore. Insomma, avevo toccato il fondo. A quel punto lì, o t’imbussoli nel piagnisteo da vittima del destino, o ti decidi a diventare il regista della tua vita e ti butti.
In un certo senso è bello azzerare una storia. E ricominciare daccapo. È come rinascere. Devi attraversare con una sorta di salto mortale tutta la barriera delle paure. Te ne vengono a non finire. E la tua ragione si mette subito all’opera per dimostrarti quanto sono fondate. Qui, devi trovare il modo di darci un taglio netto. Il che vuol dire accettare il peggio. Ma, proprio per questo, anche il meglio. Mi pare che sia del Vangelo: se uno non perde la sua vita, non la salverà.
Io avevo un sogno. Ma non credere che mi fosse chiaro nella mente come un libro stampato. Diciamo, avevo voglia di vivere in un certo modo, con un certo stile, e di sentirmi appagato delle mie giornate. Avevo voglia di arrivare alla sera e dire: oggi è stata una giornata nuova e ho fatto questo e quello. E ne vado fiero. Ora dormo e domani si riparte.
Ho cominciato a cercare delle immagini concrete per questo sogno. Sapendo che le avrei riconosciute. E mi son visto felice a Parigi, all’inizio del secolo, come pittore che viveva nella mansarda, aveva talento, faceva quadri straordinari e scendeva nei locali per venderli per poter mangiare e continuare a dipingere, in attesa di far fortuna. Una cosa da romanzetti romantici. Ma mi riconoscevo perfettamente in quel film. Sapevo che ero io.
E ho detto: sì. Mi sentivo un casino d’energia addosso. La mia decisione arrischiata, invece di spaventarmi mi dava energia. Mi piaceva dipingere. Ma sapevo che dovevo vendere, dovevo verificare se avevo un pubblico cui le mie cose piacevano.
Non ho esitato più di tanto ad espormi, a mettermi a nudo davanti alla gente. Mi piaceva sfidare me stesso nel trovare modi diretti, immediati, di dire quello che sentivo e il senso di quello che facevo. Mi pareva dotato di valore. Anche per gli altri. O almeno, per qualcuno.
Sapevo che in arte, come per qualsiasi altra cosa, esisteva già un mercato, con i suoi patron, con le sue regole, con la sua ufficialità. Voleva dire Gallerie, riviste, cataloghi, pagare fior di quattrini e affidarsi a chi deteneva il potere di vendere.
Ma non avevo soldi. E dunque non è stato difficile rinunciare alle vie ufficiali.
L’unica via d’uscita era quella di battere territori marginali, insoliti. Ma la mia visione romantica dell’artista parigino mi ha aiutato. Mi son detto: mi farò con le mie forze. Farò anch’io la gavetta. Non è male. Questo ti rafforza. E credevo in me stesso.
Ho trovato le vinerie. Non costava niente. E vi ho trovato il mio pubblico privilegiato: trentenni che inventavano la loro vita, che parlavano d’amore e di farsi strada nel mondo realizzando i loro sogni.
Ho venduto abbastanza da non morir di fame finora e da consentirmi di dipingere ancora. Si è creata una vasta rete d’amicizia e di affini. Sono andato avanti con l’aiuto di questi amici. E continua così. Ma intanto si è creato qualcosa che all’inizio sembrava impossibile: uno spazio di presenza, un mercato, un’area nella geografia del rapporto tra artista e il suo pubblico che non esisteva. Io ci scommetto su questa zona geografica.
Perché ci scommetto?
Perché quello