La seconda innocenza
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La seconda innocenza
I nostri ragazzini giocavano con entusiasmo su tutto. Anche a cucinare. Ed era straordinariamente bello vederli presi dal loro gioco.
Noi dicevamo che quella era l’età dell’innocenza. E lo dicevamo come se dessimo per scontato che ad un certo punto tutto sarebbe finito. Sarebbe finito perché avrebbero sentito il richiamo del sesso, si sarebbero innamorati, avrebbero incominciato a fare le cose di nascosto, ad esplorare i territori dell’ombra e dell’umido senza trovare un modo gioioso di dirlo a chiare lettere e di cantarlo con il solito entusiasmo di prima. Noi davamo per scontato che l’innocenza si perde e che poi ci vuole tutta una vita a riconquistarla.
Così era avvenuto per noi. Senza dubbio. E allora era diventato arduo passare da qui a lì, ritrovare, conquistandolo, lo spirito dell’avventura, del gioco, dell’esplorazione gioiosa della vita.
Eravamo diventati seri, seriosi, e facevamo drammi per qualsiasi domanda. Eravamo pieni di problemi. Tutto era un problema. E ci reputavamo intelligenti nella misura stessa in cui riuscivamo a problematizzare. Ed essere ragazzini era diventato sinonimo d’immaturi.
Il fatto è che prima non avevamo paura di nulla, e sapevamo entusiasmarci e meravigliarci. Ma dopo, quando c’innamoravamo diventavamo coglioni, non ci uscivano le parole di bocca e pretendevamo di essere salvati da quella donna o da quell’uomo a cui c’eravamo attaccati. E poiché questo non avveniva, ci reputavamo infelici e pensavamo alla vita come ad una passione inutile.
I più ragionatori di noi riuscivano a costruirci sopra cattedrali gotiche di pensieri tristi, filosofie estese e coerenti di pensieri dal gusto d’assenzio.
Quando entravamo nel tempo della responsabilità e del lavoro ci sembrava che tutto l’apparato sociale fosse stato costruito per indurci a rinunciare ai nostri sogni ingenui, e che bisognava diventare ancora più scaltri ed esperti per raggirare le circostanze e insinuarci nei corridoi del potere. Molti ci lasciavano l’anima e il corpo in quest’estenuante lavoro di sgomitamento, e se per caso qualcuno raggiungeva la poltrona desiderata, vi ci sedeva sopra privo di spessore umano e anestetizzato nel cuore.
I più sofisticati elaborarono rappresentazioni affascinanti del mondo dell’ombra, delle sensazioni avvolgenti del lato oscuro – così lo chiamavamo. E si sottoponevano ad un bagno full immersion d’esperienze spettrali. Qualcuno era capace di riemergere per la scossa. Molti s’infognavano nella melma fino a distruggersi completamente.
Fu un periodo di transizione. D’alta letteratura e di cose prive di spessore. Nel fondo del pozzo qualcuno trovava il richiamo all’amore e alla vita. Moltissimi annegavano. Fu un periodo travagliato. Forse, in quell’epoca, fu la malattia, ogni genere di malattia, soprattutto la depressione, a mandarci un richiamo.
Ma i nostri ragazzini, sotto i nostri occhi, continuavano a giocare su tutto. Il loro entusiasmo – di loro che non sapevano nulla della nostra scienza e delle strutture sociali – continuava a scaturire dalla vita come se tutto il cumulo d’immondizia con cui avevamo ricoperto la buccia della terra non esistesse neanche.
Quando ci accorgemmo di questo, ci mettemmo a pensare.
Che ci fossimo perduto qualche puntata essenziale del film della vita?
La loro innocenza. Ecco cosa ci attraeva.
E comprendevamo che non era il sex appeal giovanile il vero richiamo, ma l’innocenza gioiosa dei bambini.
Ve lo dico io: quante considerazioni ci mettemmo a fare.
Quante volte, la sera, mangiando e bevendo, con una nuova eccitazione nel corpo, parlavamo di queste cose.
E poi, alcuni di noi incominciarono a fare, e a darci l’esempio…
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