L’addestramento degli ontonauti
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L’addestramento degli ontonauti.
E’ come se tutto quello che viviamo ci si attaccasse addosso. Per andare avanti ci vuole qualche strappo. Non è una cosa tragica, nemmeno una sofferenza insopportabile. Bisogna solo vedere se hai voglia di viaggiare ancora o preferisci fermarti nelle isole che hai esplorato e dove hai costruito la tua dimora.
Non c’è niente di male a fermarsi, invecchiare e morire – in santa pace. Alla fine, prima o poi, saremo tutti morti. Quello che io mi chiedo è: ho ancora voglia di viaggiare?
Da dentro la risposta è affermativa.
E allora si configura quest’esplorazione che chiamiamo il viaggio degli ontonauti. Si tratta di attraversare l’oceano dell’essere. Perché l’essere lo si visita come un qualsiasi altro viaggio: passando da qui a lì.
E allora, Sheila – che oggi si è trasferita in Svizzera, a Stabio, con precisione – ci aveva lasciato quest’idea delle Palestre di Elaborazione dell’Esperienza. Se n’era andata lasciando un vuoto, un rimpianto della sua bellezza. Ma era la sua idea a colmare quel vuoto. Forse l’aveva fatto a posta.
Volevamo semplicemente diventare capaci di viaggiare, di staccarci e percorrere altro cammino, di sfuggire all’attrazione di ciò che era stato. Spesso era bello. Tante altre volte, era qualcosa di cui soffrivamo. Ma non c’era differenza. In un caso o nell’altro, c’eravamo attaccati.
Nelle nostre Palestre, per prima cosa apprendevamo come sentire quello che succede, quello che si sente, senza parole, senza definizioni.
Infatti, il modo principale con cui rimanevamo attaccati al passato risiedeva nelle definizioni che avevamo imparato a dare a stati d’animo e situazioni oggettive. E avevamo compreso che, una volta definita nei modi abituali una situazione, il gioco era fatto.
Gli orientali dicevano: non puoi risolvere un problema con la stessa mente che l’ha creato. Volevamo cambiare mente, dunque.
Il punto di partenza era di ritornare a quella situazione che avevamo vissuto da bambini, prima di imparare a gestire il vocabolario e ad appioppare nomi precisi alle cose. Potevamo farlo, perché l’avevamo già fatto. Potevamo osservare in silenzio e senza pronunciarci ciò che sentivamo e ciò che ci capitava.
Man mano che procedevamo in quest’esercizio ci rendevamo conto che assomigliava a quello che i predicatori della meditazione trascendentale c’invitavano a fare con le tradizionali istruzioni: fare silenzio, quietare la mente, seguire soltanto il respiro, cose del genere. Ne comprendevamo meglio il senso. Era liberarsi dall’abitudine a etichettare e giudicare.
Il secondo step – come dicevano gli americani – era quello d’inventare un linguaggio nuovo e fresco, molto personale, per ricominciare a dire la meraviglia di ciò che sentivamo e che capitava. E comprendevamo che – da sempre – questo era stato il compito della poesia.
La poesia è un linguaggio libero e spontaneo, che cavalca l’immaginazione trasportato dal vento dello spirito. E inventa parole che aprono il senso della bellezza e lo proiettano sul mondo.
Non era niente male cimentarsi in questi esercizi. Crescevamo. E passavamo da qui a lì. Ritrovandoci capaci di guardare regole e burocrazie con occhi al contempo compassionevoli e liberi.
Sapevamo che niente ci proibiva di esplorare e di navigare, seguendo i nostri sogni.
Niente. Assolutamente niente.
Avevamo sottratto il potere che noi stessi avevamo dato a queste ipostasi inesistenti.
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